Il limite della sofferenza

Quanta sofferenza sopporta l’uomo? È una domanda antica quanto Giobbe ma sempre attuale e innovativa. Non solo per la sofferenza che abita in noi e affligge, in mille modi, dalla malattia al terremoto, i nostri cari e le persone che ci stanno intorno ma anche per le nuove sfide cui siamo chiamati.
Ad esempio quelle dei migranti e del loro disagio psichico, cui Nature dedicava un bell’editoriale  e un altrettanto interessante approfondimento su tecniche e strategie di cura
In Germania dove è arrivata la grande maggioranza degli 1,4 milioni dei migranti fuggiti tra il 2015/16 dagli orrori della guerra e della fame del Nord-Africa si calcola che più della metà di loro presenti i segni di un disturbo psichico e un quarto soffra di un disturbo post traumatico da stress, ansia o depressione.

“Clinical psychologist Thomas Elbert from the University of Konstanz in Germany is conducting a local survey of refugees that suggests “more than half of those who arrived in Germany in the last few years show signs of mental disorder, and a quarter of them have a PTSD, anxiety or depression that won’t get better without help”. Previous research shows that refugees and migrants are also at a slightly increased risk of developing schizophrenia.”

Un’emergenza sanitaria scandalosamente sottovalutata, come afferma l’epidemiologo James Kirkbride dell’ University College London: “It is a public-health tragedy — and it’s a scandal that it is not recognized as such, as a physical epidemic would be”.
Ma è anche l’occasione per mettere alla prova più rapidi ed innovativi metodi di cura aperti anche alle nuove tecnologie e al digitale, percepiti ancora in Europa da molti colleghi più come ostacoli che come chance

“These efforts will help to refine the therapies for application in all refugee centres, wherever and whenever war breaks out. And they will also help to break down barriers to modern approaches to clinical psychology in Europe, where the discipline has become conservative and complacent. Too many psychologists are reluctant to consider how mobile-device and Internet-based approaches could supplement standard therapies, and are too resistant to the concept that anyone who is not a qualified psychologist could help. The experience with refugees might also inspire improvements in local access to mental-health provision by generating, through necessity, a system that works faster and has fewer barriers.”

E anche l’occasione per sperimentare nuovi approcci, integrativi rispetto alle tradizionali psicoterapie, come quello narrativo – in Italia quanto mai sostenuto, criticamente elaborato e digitalmente sviluppato dalla mia vicina di blog Cristina Cenci, fondatrice della piattaforma digital narrative medicine
“several studies… show that an approach called narration exposure therapy (NET), carried out by trained lay counsellors, can reduce the severity of PTSD symptoms” scrive Allison Abbot nel già citato articolo di Nature
Ma quanta sofferenza sopportano i terapeuti che ogni giorno si ritrovano tra le loro mani, il loro cervello e il loro cuore il dolore straziante dei loro pazienti?
Le statistiche, americane, registrano un sempre maggiore incremento di Burnout e depressione tra i terapeuti, in particolare di sesso femminile.

“In a survey of female psychologists, 76% of the sample experienced some form of depression, with the most frequent diagnosis being dysthymia”

Ancora più inquietante la frequenza, in aumento, di pensieri suicidali (un terapeuta su 4) e di tentativi di suicidio (un terapeuta su 16).
Senza incorrere in improvvidi allarmismi, questi dati e analoghe esperienze personali costituiscono però un campanello d’allarme che deve far riflettere. Ed agire. Con provvedimenti tecnici (supervisione, intervisione, scambio di esperienze, aggiornamento scientifico etc) per le categorie a rischio. Il team di un piccolo ospedale engadinese, che cura con metodi anche complementari, insieme a pazienti internistici, chirurgici e psichiatrici anche pazienti, affetti da tumori, ha accolto a braccia aperte la supervisione, che ho recentemente svolto in forma di Gruppo Balint come una manna, un necessario rifugio per menti e cuori quotidianamente confrontati con l’impotenza della morte.
Ma l’elaborazione del disagio e della sofferenza, che ci viene riflessa nello specchio dai migranti, poveri, emarginati e diversi di ogni sorta, riguarda tutti noi. Se non vogliamo arrivare agli atteggiamenti intolleranti di Goro e poi dividerci in buoni e cattivi. È inutile negare l’ (irrazionale) paura, lo (stupido) egoismo, il carico della sofferenza che sta davanti e soprattutto dentro di noi. Meglio chiedersi quali sono i mezzi più efficaci per affrontarla, condividerla, renderla accettabile e superabile con gesti quotidiani, a vantaggio degli altri e di noi stessi, senza farci paralizzare dalla paura e dall’impotenza.
Tra le tante strategie, c’è anche quella della lettura – privata o collettiva, analogica o digitale, nella nostra pascaliana isolata stanza o nell’affollata rete dei social network – e del confronto con i temi e i personaggi di romanzi che sono anche “pugni nello stomaco”, come la Tregua di Primo Levi, ora in rilettura/riscrittura con TwLetteratura su Twitter e betwyll
Vengono in mente le parole di Magris a proposito di Auto da fè di Canetti: un’opera del genere ” non concede nulla al lettore ma lo colpisce allo stomaco, lo mette faccia a faccia col delirio del mondo e del pensiero” .
Perché, come scrive Magris, a conclusione del suo Alfabeti:

“la letteratura è un continuo viaggio fra scrittura diurna, in cui un autore si batte per i propri valori e i propri dei, e quella notturna, in cui uno scrittore ascolta e ripete ciò che dicono i suoi demoni, i sosia che abitano nel fondo del suo cuore, anche quando dicono cose che smentiscono i suoi valori. La letteratura è anche una discesa agli Inferi — anche a quello che Flaubert chiamava “la latrina del cuore”.

Suggerimento musicale: Arpeggione Sonata, Franz Schubert