La lingua padre

Viviamo in un mondo sempre più poliglotta o almeno bilingue. Lo sottolineiamo con piacere quando ci riferiamo a noi stessi o ai nostri figli che magari studiano o lavorano all’estero, lo constatiamo talvolta con miope amarezza quando sentiamo le tante altre lingue che negli ultimi anni sono sbarcate sul suolo italiano. Ancora relativamente pochi studi si occupano però delle conseguenze del bilinguismo sul funzionamento cerebrale. Una recente ricerca, semplice e intrigante, comincia a colorare le pagine in gran parte ancora bianche di questo promettente campo di indagine.
Anzi lo studio arriva alla conclusione che nella seconda lingua la nostra immaginazione è più sbiadita che nella nostra lingua madre. Le immagini sensoriali che noi percepiamo nella seconda lingua sono cioè soggettivamente meno vivide. (Ciò non varrebbe però per gusto ed olfatto). Non solo. Anche obiettivamente le nostre facoltà immaginative sono ridotte nella seconda lingua

muted imagery reduced accuracy when judging the similarity of shapes of imagined objects.

Ma il risultato più interessante è forse che tale ridotta facoltà immaginativa nella seconda lingua spiega, almeno in parte, un fatto gia noto e cioè che la facoltà di giudizio nella seconda lingua è più razionale/utilitaristica e meno influenzata dalle bias cognitive. Concretamente i ricercatori hanno sottoposto i probandi al noto test del trolley  (nella versione in cui il probando deve scegliere se sacrificare 5 persone o gettarne una grassa sotto il trolley per salvare le 5). La metà dei probandi che svolgeva il test nella seconda lingua non aveva problemi a gettare sotto il trolley la persona grassa per risparmiare le altre 5 e tale scelta era da loro motivata proprio con il fatto di avere un’immagine meno vivida e meno concreta della persona da sacrificare. Dunque meno vivida è l’immaginazione, minore è il coinvolgimento emotivo, più obiettiva la percezione, più razionale la scelta.
Questo risultato mi sembra possa, in parte, spiegare un fenomeno che avevo da tempo osservato nel mio lavoro clinico quotidiano (in Svizzera tedesca). Nella psicoterapia in tedesco ho generalmente la sensazione di un maggior distanziamento emotivo dal paziente. Certo gli svizzeri non sono in genere emozionalmente travolgenti, ma non credo che ciò spieghi tutto. Noto qualcosa di simile con i tedeschi, decisamente più diretti. Da una parte temo di non riuscire a trovare l’espressione linguisticamente più efficace per condensare il vissuto emotivo della seduta dall’altra ho però la sensazione che la maggiore distanza emotiva faciliti una maggiore riflessione critica nella relazione, consentendomi di osservare meglio le proiezioni del paziente su di me e le mie su di lui/lei.
Naturalmente la mia è solo un’ ipotesi, tutta da verificare, così come da approfondire rimane tutto il campo di ricerca del bilinguismo. Si profilano però già alcuni interessanti test di verifica. Si potrebbero invitare i candidati premier italiani ad un dibattito nella loro seconda lingua per constatare se riescano o meno a liberarsi dalle loro bias cognitive, dalle promesse illusorie, dall’eccessivo e fazioso coinvolgimento emotivo. Il test del trolley non sarebbe per loro certo un problema. Una seconda lingua, che non sia l’italiano, forse. Ma chissà che la seconda lingua non sia anche la metafora giusta per vivere con maggiore consapevolezza i social
Immagine: una lettera in inglese di Sigmund Freud tratta da A letter from Freud
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