Un algoritmo per i migranti?

I richiedenti asilo che cercano un lavoro in Svizzera verranno distribuiti nei diversi cantoni sulla base di un algoritmo per l’inserimento lavorativo elaborato dal prestigioso politecnico zurighese ETH e dall’università di Stanford. La proposta proveniente dallo stesso Politecnico è stata vagliata e ratificata dal segretariato svizzero per la migrazione (in tre mesi) e diverrà operativa da settembre. Si tratta di un progetto pilota cui parteciperanno un migliaio di migranti richiedenti l’asilo mentre altri mille saranno distribuiti secondo i criteri attuali. Ci si aspetta un miglioramento della quota di integrazione lavorativa dei migranti e un’accelerazione del processo di integrazione. Allo stato attuale al terzo anno di soggiorno in Svizzera solo il 15% dei richiedenti l’asilo lavora. Secondo le stime dello studio del politecnico ETH e dell’università di Stanford la quota potrebbe aumentare fino al 26%. Ciò grazie appunto a un algoritmo basato sui dati anagrafici ma anche sociali, culturali, lavorativi di oltre diecimila migranti che hanno già trovato lavoro.
Con la mia consueta ingenuità (e una buona dose di megalomania) mi domando se algoritmi analoghi non potessero essere sviluppati e applicati per la distribuzione dei migranti non solo in Italia ma anche e soprattutto per la ripartizione dei migranti in tutta Europa! Non mi illudo di risolvere o anche solo attenuare con un espediente tecnico un problema politico, sociale, culturale di estrema complessità e enorme portata. Spero però che l’applicazione di algoritmi “scientifici” contribuisca a rendere più obiettivo e dunque più gestibile un tema che ha assunto toni che sono divenuti da stadio se non peggio.
Temo che tra qualche anno o decennio ci accorgeremo che le enormi e in gran parte incontrollabili migrazioni in corso sono state la sfida, o almeno una delle grandi sfide che noi europei abbiamo avuto di fronte. Sulla base di come l’affronteremo si valuterà se noi siamo stati all’altezza dei valori di umanità (libertà, uguaglianza, solidarietà) che diciamo di professare e in cui affermiamo di riconoscerci o se ci saremo lasciati ancora una volta travolgere dalla barbarie dell’intolleranza, dell’indifferenza, del nazionalismo e del fascismo. Al tempo stesso non possiamo ignorare i dati di fatto, e cioè non solo i sondaggi (secondo i quali due italiani su 3 sono favorevoli alla chiusura dei porti) ma le paure che vi stanno sotto e sulle quali hanno facile presa, da sempre, populisti, nazionalisti, fascisti. Attizzare, rinfocolare, manipolare la paura è (relativamente) semplice ed elettoralmente redditizio. Coltivare, far sbocciare e maturare la speranza è tremendamente difficile. Al contempo far moralisticamente appello alla virtù dei buoni (guarda caso noi) e condannare la malvagità dei cattivi (guarda caso gli altri) non basta. Credo sia più che mai necessario sottrarre il dibattito alle intimidazioni, ai ricatti emotivi, ai dilemmi falsi e fuorvianti e condurlo sui binari della riflessione, sociale, culturale, politica nel suo senso migliore. Sviluppare e applicare algoritmi, pur con tutti i limiti dell’algocrazia, può essere forse un modo per tornare a ragionare. Senza reprimere le nostre emozioni. Piuttosto elaborandole, divenendone consapevoli, gestendole, traendo soluzioni creative e innovative dalla scienza per andare incontro alla disperazione altrui senza perdere l’umanità e la testa.