La fragilità dei fiori accresce la bellezza del ciliegio”. Tutti siamo pronti a riconoscerlo. Molto più difficile è però accettare la bellezza della fragilità quando quest’ultima riguarda noi. Sappiamo che, come scrive ancora Simone Weil, “la nostra carne è fragile…, la nostra anima è vulnerabile.. La nostra persona sociale… è costantemente e interamente esposta al caso”. Ma siamo ben lontani non solo dal “ringraziarne continuamente Dio” – come la Weil ci invita invero fin troppo eroicamente a fare – ma anche solo a riconoscerla e ad accettarla. Eppure scrive Borgna “la fragilità fa parte della vita, ne è una delle strutture portanti, una delle radici ontologiche”. “Nella fragilità – prosegue – si nascondono valori di sensibilità e delicatezza, di gentilezza estenuata e di sensibilità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi”. Anche solo per questo varrebbe la pena di leggere “La fragilità che è in noi”, Einaudi Ed., l’ultima opera di un grande della psichiatria italiana, Eugenio Borgna. Il fenomenologo italiano per antonomasia attribuisce alla fragilità il significato di “vulnerabilità, di sensibilità e ipersensibilità, di delicatezza e di indifesa e inerme umanità” e lambisce con il delicato
tocco della sua appassionata parola – un cesello di profondità, silenzio e poesia – gli eterogenei territori della fragilità: “le nostre emozioni, e le nostre ragioni di vita, le nostre speranze e le nostre inquietudini” ma anche le esperienze della timidezza, dell’amicizia e della gioia, del silenzio, della mistica, della malattia del corpo e dell’anima, dell’adolescenza, della condizione anziana in particolare quando “sconfini negli abissi” del morbo di Alzheimer. Un arido elenco non può render ragione della fragilità e della delicatezza con cui Borgna vi si accosta. “Proprio perché la nostra fragilità è radicalmente ferita dalle relazioni che non siano gentili e umane ma fredde e glaciali o anche solo indifferenti e noncuranti.” Siamo – constata Borgna – vorremmo disperatamente essere, monadi aperte alle parole e ai gesti di accoglienza degli altri; e, quando questo non avviene, le dinamiche relazionali si fanno oscure e arrischiate: dilatando fatalmente le nostre fragilità”.
“In effetti … ciò che abbiamo in comune [è] proprio la vulnerabilità” scrivono, Adam Phillips e Barbara Taylor in “Elogio della gentilezza“, Ed Ponte alle Grazie, un altrettanto straordinario libro, anglicamente speculare a quello di Borgna. E aggiungono: “essa [la vulnerabilità] è il mezzo di contatto tra noi, ciò che possiamo riscontrare in ognuno. Prima ancora di essere creature sessuate, siamo creature vulnerabili”. Ma perché allora facciamo così fatica a essere gentili ed amorevoli, quando lo chiediamo, imploriamo, pretendiamo dagli altri? Perché siamo così ambivalenti rispetto alla gentilezza (o meglio alla difficilmente traducibile kindness) che amiamo e temiamo al tempo stesso? “Il piacere dell’amorevolezza – rispondono Phillip e Taylor – sta nell’unirsi agli altri mentre il terrore che l’accompagna dipende dal fatto che ci rende consapevoli con troppa immediatezza delle vulnerabilità nostre e altrui”.
Borgna ha lo straordinario merito di lasciarci sentire interiormente questa fragilità con la parola letteraria, poetica. Nella convinzione che “Il linguaggio [della letteratura], … costituisce una straordinaria opportunità affinché la psichiatria divenga “scienza umana, psichiatria dell’interiorità, psichiatria che si confronta con l’angoscia e la tristezza, con la disperazione e con il dolore indicibile dell’anima in un atteggiamento di condivisione intensa ed umanissima” (Eugenio Borgna, Il turbamento e la scrittura ) Come ha confermato anche, nel suo piccolo, l’ esperimento Twitter di #tmente la narrazione e l’arte in generale svolgono nel rapporto tra noi e i disturbi psichici un ruolo di ponte che da un lato favorisce la nostra identificazione con il disagio psichico dei personaggi artistici e dall’altro ci garantisce una protezione sufficiente per aprirci al dialogo con le parti fragili di noi stessi e degli altri. Proprio le parole poetiche “fragili”, aggiunge Borgna, sono quelle “di cui hanno bisogno le persone fragili e insicure, sensibili e vulnerabili, indirizzate alla disperata ricerca di accoglienza e di rispetto della loro debolezza: della loro dignità”. Sono terapeuticamente “fragili le parole rilkiane che si aprono e si chiudono come ortensie azzurre”, “le parole leopardiane”, “le parole ungarettiane, che come allodole accecate da troppa luce, rinascono dal silenzio e dalla discrezione, dalle luci e dalle penombre della vita”.
Sarebbe però paradossalmente riduttivo risolvere tutto nella, pur reale, funzione terapeutica dell’arte. Più ancora e prima ancora di questo abbiamo bisogno di gentilezza o meglio di amorevolezza. Non certo di quella freddamente prestampata del marketing e delle della campagne pubblicitarie. Ma di un’amorevolezza che nasce dall’essere consapevoli della nostra fragilità e ancor di più della paura che questa suscita in noi. Ne abbiamo bisogno noi quando perdiamo le poche certezze del quotidiano e ti veniamo bisognosi pazienti. Ne hanno quanto mai bisogno la medicina e in particolare la psichiatria scienza fragile e proprio per questo sempre esposta al rischio delle pseudo certezze di volta in volta organicistiche, psicanalitiche, sistemiche, neuroscientifiche e “divorata… dalla tentazione di non considerare la fragilità come esperienza umana dotata di senso, ma come espressione, più o meno dissonante di malattia, di una malattia che non può essere se non curata” (Borgna). Di amorevolezza, non di orgogliose certezze, abbiamo bisogno tutti noi nella lotta in cui siamo impegnati ogni giorno con le nostre e altrui vulnerabilità. Ma – ci ricordano Phillip e Taylor – la vera generosità è uno scambio “molto più promiscuo” di quello sessuale. “È un rischio proprio perché mescola i nostri bisogni nostri desideri con i bisogni e desideri degli altri, in un modo che resterà sempre precluso al cosiddetto autointeresse”. Proprio perché è uno “scambio dalle conseguenze essenzialmente imprevedibili” la generosità è così paurosamente affascinante.