Violenza e sindrome E

The evil that men do lives after them
(Giulio Cesare, Atto III, Scena 2)
Credo che Shakespeare, il geniale creatore di queste celebri parole sarebbe stato lo scrittore più titolato per partecipare alla conferenza internazionale interdisciplinare convocata lo scorso aprile a Parigi da Itzhak Fried, fellow of the Paris Institute for advanced Studies, col sostegno di Alain Berthoz, Collège de France sul tema “The Brains that pull the Triggers. Paris Conference on Syndrome E
Una prestigiosa e singolare riunione di neuroscienziati, psicologi, sociologi, storici, e letterati convenuti per cercare di comprendere insieme cosa induca gruppi di mansueti cittadini a trasformarsi in killer seriali di vittime innocenti. Un’idea di congresso semplice e geniale ad un tempo che ha le sue radici nel lavoro di Itzhak Fried, uno straordinario neurochirurgo che quasi vent’anni fa aveva pubblicato su Lancet Syndrom E un articolo quanto mai innovativo e provocatorio per quei tempi non ancora invasi dal neuro-tutto. Fried, osservando il ripetersi dei genocidi compiuti in nome dell’ideologia nel XX secolo, riteneva già allora si potessero individuare caratteristiche comportamentali comuni del fenomeno tali dunque da poterlo inquadrare come una sindrome “clinica”, la sindrome E. Questi, secondo Fried, i tratti comuni: ideazione ossessiva, ripetizione compulsiva delle azioni violente, rapida desensibilizzazione alla violenza e abitudine alla stessa, scarsa affettività, ipereccitamento fino ad una sorta di stato di ebbrezza, dipendenza ambientale con obbedienza all’autorità e dipendenza dall’approvazione del gruppo, contagio di gruppo, mantenimento invece delle funzioni cognitive superiori (memoria, linguaggio problem-solving etc). Se guardiamo alle recenti violenze di Isis, sembra proprio che i fenomeni comportamentali della sindrome E siano nuovamente e tragicamente in azione.
Fried ipotizzava inoltre che alla base di tali comportamenti di violenza di gruppo seriale e fortemente ideologizzata – e solo di questi – vi fosse una sorta di “frattura cognitiva”. La corteccia frontale e prefrontale – le parti del cervello cioè più evolute che progettano e giudicano le azioni – verrebbero in queste situazioni iper stimolate, non sarebbero più regolate dal controllo omeostatico viscerale e somatico e inibirebbero l’amigdala, il nostro centro emotivo per eccellenza in cui vengono elaborate tra l’altro paura, angoscia etc. Si creerebbe cioè una sorta di separazione tra la parte più “razionale” ed ideologizzata del cervello, premuta a manetta e la parte emozionale e somato-sensoriale messa invece in sordina. Secondo una geniale intuizione contro intuitiva Fried ritiene infatti che la violenza ideologizzata e seriale non derivi da una disinibizione del cervello primitivo ma sia invece il prodotto di una iper stimolazione spropositata delle nostre parti più evolute e razionali, disconnesse dalle afferenze emozionali e fisiche del nostro corpo.
Nei quasi vent’anni che intercorrono tra il primo articolo di Fried e la recente riflessione parigina interdisciplinare sullo stesso tema le conoscenze neurobiologiche e le tecniche di neuroimaging hanno fatto straordinari progressi, tali per cui l’ipotesi di Fried, così come molte altre, deve essere naturalmente ripensata. Ma diversi indizi sembrano confermarla come egli stesso spiega in una breve intervista a Nature Per esempio Lasana Harris dell’Università di Leiden in Olanda, che si occupa di conflitti tra gruppi sociali, ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale e l’elettroencefalogramma per dimostrare che la gente comune può sopprimere la rete cognitiva del cervello sociale in modo tale da percepire i nemici come oggetti disumanizzati piuttosto che persone con conseguente isolamento delle emozioni.
Un altro studio dello psicologo Pascal Molenberghs della Monash University in Melbourne, Australia,  dimostra che volontari messi nella situazione virtuale di sparare a soldati e civili presentano (ovviamente) una maggiore attività nella corteccia orbito-frontale (OFC) quando immaginano di sparare ai civili e che tale incrementata attività della OFC è legata ad un maggior senso di colpa. Ciò si riflette anche nell’attività di un’altra zona, la giunzione temporo-parietale collegata alla OFC.
There was also more coupling between the OFC and the TPJ—with the OFC effectively saying I feel guilty and the TPJ effectively answering You should.
Ancora più interessante è però il fatto che il modo di percepire civili e soldati è diverso. Quando i volontari stanno per sparare nel gioco virtuale ad un civile si attiva prevalentemente la struttura cerebrale (giro fusiforme) che analizza le espressioni del volto, dunque umanizzandolo. Quando invece i volontari stanno per sparare ad un soldato prevale la struttura (giro linguale) che analizza lo spazio, facilitando così il processo di disumanizzazione e dunque la riduzione del senso di colpa.
Moltissimo naturalmente rimane ancora da studiare e fare per conoscere a fondo tutti i complessi fattori che inducono la violenza e vi operano. Come anche sottolineato dall’editoriale di Nature  vi è il pericolo, indicato dai sociologi alla conferenza parigina, di medicalizzare un problema sociale e al tempo stesso quello fatto presente dai neurobiologi di estrapolare dati validi in laboratorio a situazioni infinitamente più complesse. Al di là di tutto, mi sembra però che la conferenza parigina segni un significativo passo avanti nell’integrazione tra scienze umane scienze naturali su un tema tanto vitale. Se le riflessioni sulla violenza e sulla necessità della pace erano un tempo frutto isolato di riflessioni individuali di menti straordinarie quali Kant e il suo progetto per la pace perpetua o scambio di idee di menti altrettanto geniali come il carteggio tra Freud e Einstein, ora il lavoro interdisciplinare e integrativo diventa regola e metodo. Ma mi sembra ci sia ancora di più, molto di più.
Come scriveva già Fried nel ’97
“Early recognition of symptoms and signs could lead to prevention through education”
è possibile operare una prevenzione tramite l’educazione molto più efficace di ogni ulteriore violenza contro i violenti. Un’educazione che può prendere tante strade. Invitare ad esempio 23 scrittori europei tra cui Andrea Molesini , Melitta BreznikA. L Kennedy a ricostruire l’ atmosfera delle diverse città europee allo scoppio della prima guerra mondiale nell’agosto del 1914 e discuterne nelle case della letteratura di mezza Europa. Ma l’educazione è diventata più che mai anche digitale. L’auspicio di Goethe sembra essersi realizzato
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Ora è possibile condividere, rileggere e riscrivere insieme nella comunità di Twletteratura  i vissuti e le considerazioni di #Lussu #Stuparich #isonzoinfame riflettere filosoficamente insieme su questi ed altri temi in twitsofia e in mille altre iniziative ancora in cui possiamo essere consapevoli partecipanti di un progetto di riflessione critica sulla violenza e di superamento pacifico ma non per questo ingenuo dei conflitti.
Se è vero che la neurobiologia ci dimostra ogni giorno di più quanto sia ridotta la nostra libertà di premere o meno il grilletto, schiacciati come siamo dai nostri impulsi, è anche vero che possiamo (almeno in parte) decidere se arrivare a quel momento dopo aver letto magari Dostojevski
“Io non voglio e non posso credere che il male per gli uomini sia la normalità” (Dostojevski, Il sogno di un uomo ridicolo)
Suggerimento musicale Strawinsky La sagra della primavera