La consapevolezza della discriminazione

Basta con lo stigma nei confronti della malattia mentale!
Lo diciamo, da tempo, in tanti, forse tutti, ma l’enunciazione del desiderio non basta di per sé a realizzarlo magicamente. Nella realtà le cose sembrano andare diversamente. Nonostante viviamo in un’epoca in cui la discriminazione verso alcune minoranze va lentamente anche se faticosamente attenuandosi, diversi studi indicano che l’atteggiamento nei confronti dei malati mentali non risulta essere migliorato molto negli ultimi decenni. Anzi. Nonostante (o forse proprio perché) il numero delle pensioni di invalidità per cause psichiche sia in Germania quasi raddoppiato (dalle 41000 unità del 1993 alle 74000 del 2012), la distanza cui il cittadino tedesco vuole tenere i malati psichici è aumentata negli ultimi 25 anni. Chiamato a rispondere non sui principi, ma sui propri sentimenti, il singolo non li vuole né come vicini, né come colleghi, non li raccomanda sul lavoro e non li considera come amici.
Uno studio condotto tra il 2013-2014 da stimati ricercatori tedeschi dimostra addirittura che i pregiudizi nei confronti degli schizofrenici sono molto aumentati mentre quelli nei confronti di depressi e alcolisti sono cresciuti di poco. Un studio  condotto per valutare l’efficacia della campagna inglese contro lo stigma sembra evidenziare risultati quantomeno ambivalenti

“In the multivariable analysis, we noted a significant increase in positive attitudes in relation to prejudice and exclusion after the launch of Time to Change, … but not for tolerance and support for community care”

Che è un po’ come dire che l’operazione (psichiatrica) è riuscita ma il paziente sta male.
Ma cos’è lo stigma? e com’ è possibile sconfiggerlo? Il professor Wulf Rössler in una breve intervista di qualche anno fa spiega che alla base di ogni stigmatizzazione e discriminazione vi sono generalizzazioni, semplificazioni indebite e stereotipi cognitivi, emotivi e comportamentali che fanno parte del nostro normale processo di percezione/elaborazione della realtà oltre che di ogni socializzazione. Per risparmiare tempo ed energia il nostro cervello generalizza, semplifica e stereotipizza. Lo fa inconsciamente prima ancora che consapevolmente. Per quanto possa essere spiacevole, ognuno di noi si porta un piccolo – o grande – Salvini, Blocher, Le Pen dentro di sé che ci fa percepire ed agire pregiudizievolmente – contro i malati psichici così come contro gli extracomunitari – prima ancora che noi riusciamo consapevolmente a fermarlo. Razionalmente riusciamo a sbarazzarci di alcuni pregiudizi, altri li combattiamo con (intollerante) passionalità , di altri rimaniamo ignari prigionieri.
È la dolorosa lezione dell’antropologia come ricorda in un bellissimo articolo Enrico Pozzi
“Per quanto faccia e voglia, il più illuminato, ‘buono’ e universale degli osservatori non può uscire dal suo punto d’osservazione, dalle categorie, dalle rappresentazioni profonde, dall’immaginario sociale e individuale che il suo stare-nel-mondo gli costruisce dentro.
Solo con dolorosi sforzi…Possiamo intuire a tratti, con ampie aree di errore, frammenti del mondo dello straniero.”
Se l’erede di Don Rodrigo nel tentativo di riparare alle ingiustizie di quest’ultimo verso Lucia arriva perfino a servire a tavola gli sposi, non riesce però a mangiare con loro, a mettersi alla stessa altezza. Ed è un personaggio letterario. Chi di noi, fieri combattenti dello stigma, accetta volentieri per vicino/collega/amico una persona appena dimessa da un Servizio di Diagnosi e Cura? Eppure siamo anche noi quella persona su quattro che diviene affetta da disturbi psichici. Ma come da automobilisti ci scordiamo di essere pedoni, da sani (???) rimuoviamo dal nostro orizzonte i malati psichici e con loro il malato psichico che è in noi. Non aiuta gridare allo scandalo. Non è che una delle mille arbitrarie rimozioni, dissociazioni, negazioni che ci rendono possibile sopravvivere a carichi emotivi sotto i quali rischiano di soccombere anche gli eroi di Sofocle.
A partire da Aiace  uno dei primi “folli” della letteratura e soprattutto vittima per antonomasia dello stigma della follia. Il valoroso eroe greco che non aveva pari in battaglia, che non chiede mai aiuto agli dei, una volta accecato dalla follia inviatagli da Atena, fa strage di pecore pensando di uccidere i compagni di battaglia cui non perdonava la scelta di concedere ad Ulisse anziché a lui l’onore di portare le armi di Achille. Quando se ne rende conto per la vergogna si uccide. “Oh no, quest’onta patire, non saprò” Una vergogna che altro non è se non lo stigma introiettato e rivolto contro di sé – affilato come la spada di Ettore con cui Aiace si uccide. L’inflessibile occhio esteriore/interiore di fronte al quale il nostro malinteso orgoglio ci vorrebbe far scomparire, annichilire.
Ma un altro sguardo è possibile. Non solo il regard éloigné di Lévi-Strauss ma anche quello umile che ha pietas della sofferenza propria ed altrui.
Possiamo divenire umilmente consapevoli dei nostri limiti cognitivi ed emozionali. “Dal riconoscimento umile di questo limite e della parzialità di questo confine, – scrive ancora Pozzi  – ci si può avventurare verso frammenti di altri universi, a noi sempre per gran parte estranei nella carne.”
Nell’incontro/scontro concreto con il/la malato/a psichico/a i suoi limiti e le sue risorse possiamo faticosamente avvicinarci all’altro da noi ed in noi. L’informazione astratta, pure necessaria, non basta a creare tolleranza e solidarietà. Serve l’esperienza emozionale del patire (πάθος μάθει), sia quella diretta e quotidiana, sia quella di incontri educativi o almeno quella mediata dalla narrazione letteraria, perché – come scrive Todorov, meritoriamente citato nella traccia di un recente tema di maturità – “conoscere nuovi personaggi è come incontrare nuovi volti. Meno questi personaggi sono simili a noi e più ci allargano l’orizzonte, arricchendo così il nostro universo”.  D’altro canto la stessa scoperta della nostra fragilità – ansiosa, depressiva, ossessiva, paranoica – non avviene nel corso di un amabile convivio ma in tempo di crisi e dolorosa sofferenza.
Forse una strategia efficace per superare lo stigma è proprio discutere apertamente il tema ancora tabù della terapia di psicoterapeuti “esauriti” a seguito di burnout, depressione etc, come fa la rivista tedesca, Lo psicoterapeuta, che ha dedicato un numero monografico proprio al tema stigma e psicoterapia. È anche dalla trasparenza con cui psicoterapeuti/e comunicano correttamente e sinceramente i loro problemi e l’eventuale ricorso all’aiuto terapeutico che può venire un concreto aiuto all’abbattimento dello stigma e della discriminazione dei pazienti psichiatrici e del malato psichico che è dentro di noi.
Suggerimento musicale: F. GEMINIANI, Concerto Grosso No.12 in D minor “La Follia”