Quando la campana della cattedrale di Basilea comincia a battere le sette Margarethe, una novantenne austriaca, ha già lasciato la casa di riposo e, rasserenata dal calore del sole, la testa appoggiata al sostegno della sua sedia a rotelle, si dirige alla stazione per recarsi poi in treno a Francoforte. A incontrare la figlia Lena, e con lei il proprio passato, l’ombra del marito, Max, morto da tempo, i traumi delle guerre. Della prima guerra mondiale, vissuta dai suoi genitori, della (dimenticata) guerra civile austriaca tra filo-nazisti dolfussiani e socialisti che lei stessa ha vissuto, della seconda guerra mondiale in cui ha conosciuto e “perso” il marito.
I postumi della guerra incombono su Margarethe e gli altri personaggi dell’ultimo romanzo “Der Sommer hat lange auf sich warten lassen” (L’estate si è fatta a lungo attendere) di Melitta Breznik cinquantaduenne psichiatra e scrittrice (o scrittrice e psichiatra?) austriaca residente a Basilea che rivedo con grande piacere alla lettura pubblica del suo romanzo, adottato come libro di testo! al Centro di formazione in campo sanitario e sociale di Coira. La psichiatra Breznik ricorda che i traumi della guerra si trasmettono – come eredità epigenetica trans generazionale – alle generazioni successive influenzandone il presente ed il futuro. E l’entità dell’influenza e del condizionamento – aggiunge l’autrice – è inversamente proporzionale al grado di espressione e di elaborazione di quegli stessi traumi. Se li portiamo con noi come invisibili e indicibili fantasmi, rischiamo di soccombervi. Perciò è così importante creare una memoria
condivisa – scandisce con passione Melitta, figlia di genitori traumatizzati dalla guerra, nella la sua voce cristallina come il suo tedesco, dall’inconfondibile accento austriaco. Un accento e un timbro di voce che sembrano incarnare un’intera civiltà, quella mitteleuropea, segnata dal malinconico disincanto di fronte ai nostri abissi ma anche dal dovere della consapevolezza quale (unica) arma di difesa contro gli stessi.
Cosa succedeva a Hans, Karl, Emmie, Katrin, Eugen, Marjana, Éric, Alma, Niccolò, Maggie, Andrea, Alexandr, Klaus, Zsófia nelle città europee quando è scoppiata la prima guerra mondiale? Le case della letteratura tedesca, austriaca e svizzera l’hanno chiesto a 23 scrittrici/ori – tra cui Melitta Breznik, il veneziano Andrea Molesini e tanti altri talenti mitteleuropei – che, compulsando – chi più, chi meno – giornali e documenti dell’epoca, hanno creato, in un analogo sforzo di memoria condivisa, 23 racconti ambientati in altrettante città. Ne è nato il libro “Mit dieser Welt muss aufgeräumt werden” (“bisogna ripulire questo mondo”), titolo che riprende il tragico motto e lo spirito follemente guerrafondaio d’inizio secolo scorso.
Come twitta Paolo Costa “voleva essere riscatto e fu catastrofe”
Paolo Costa (@paolocosta)
23.05.14 08:44
Riscrittori di #Lussu, ricordiamoci che domani è il #24maggio. L’inizio della #GrandeGuerra: voleva essere riscatto e fu catastrofe.
Fu anzi, come ricorda molto bene Gerhard Hirschfeld sul @24Domenica del 18 maggio, “la catastrofe primigenia del XX secolo” (George F. Kennan) origine di tutte le altre e fonte di un “odio [che] – come scrive Hannah Arendt – “si insinuò in profondità in tutti gli spazi della vita quotidiana e riuscì a diffondersi in tutte le direzioni […] Nulla poteva sottrarsi all’Odio”.
Di quell’odio folle e di quell’odiosa follia sembra di sentire ancora le spire in “Un anno sull’altipiano” il romanzo di Lussu, che Twitteratura ha meritoriamente scelto di leggere e riscrivere su Twitter, (noto non-luogo di alienazione! ) nel centenario della grande guerra. “Un anno” vissuto e sofferto di sacrifici pianificati, ordini disumani, logiche deliranti di annientamento, pratiche quotidiane di reificazione, rituali gerarchici di umiliazione, follie collettive e individuali della vita di trincea per sottrarsi alla realtà della morte e dell’impotenza. Eppure in questa catastrofe di disumanizzazione che è la pratica della guerra Lussu riesce a ritagliare briciole d’umanità che arrivano fino ai nostri smartphone. Impastate nei Tweet con le nostre angosce più intime, le preoccupazioni dell’attualità, la frenesia del quotidiano e le nostre piccole meschinità, ci offrono un prezioso momento di memoria collettiva, un’occasione di consapevolezza condivisa. Non mi sembra poca cosa se ripenso alle rime baciate in sacrificio della poesia che la maestra mi faceva recitare alle elementari davanti al monumento ai caduti del mio paese, in cui stava (e sta ancora) scritto “umili figli del popolo per la giusta causa divennero eroi”
Di loro (figli del popolo? eroi?) rimangono generalmente solo le lapidi, con incise sopra parole scritte da altri. Tullio Cavalli, il mio adorato e compianto professore del liceo, con un gesto di pietas, ha ridato loro voce raccogliendo in Isonzo Infame, – purtroppo da tempo esaurito – le lettere, circa duecento, dei soldati bresciani caduti nella guerra 15′-18′. Certo pochissime rispetto alla cifra complessiva di 4 miliardi di lettere e cartoline scambiate in quel periodo. Sono però testimonianze indimenticabili di un mondo e di una cultura contadina distante anni luce dall’ambiente degli ufficiali di Lussu e anche per questo così preziose. Ma non solo.
Leggendo
“ho visto la mamma che era ingiottita dalle lacrime”
“termino che una lacrima mi cuarcia gli ochi e non posso scrivere”
“Una notte mi sono insomiato del mio Giovanino che mi chiamava buba buba poverino”
“Ah! Cara mamma,
i cridi il sangue in quel giorno in quel momento. è una cosa; non posso spiegarmi! perché?
il dolore e le lagrime che ho soferto e tutt’ora soffro per i miei cari asai combatenti fratelli e compagni, mi sento a sofocarmi perché e stata troppo limpressione di quei giovani che mi a fatto.
Non vi posso spiegarvi di più perché non tengo coraggio di scrivervi tutto ciò che è accaduto nel giorno 30 della nostra ferocie avansata….”
leggendo, dicevo, questo incerte e sgrammaticate righe di dialetto tradotto possiamo (forse) coltivare oggi, a cent’anni dall’avvio (italiano) di quella catastrofe, la speranza che un briciolo di umanità resista all’abisso della guerra (fuori e dentro di noi) e che la faticosa ricerca di una consapevole memoria collettiva – magari anche tramite europeana – sia possibile (oltre che doverosa).