I nuovi occhi di Robinson per la psicoterapia

Quanto costa un disturbo bipolare? Non mi riferisco ai costi sociali indotti dalla malattia. Intendo proprio il costo del trattamento stazionario del disturbo. Si sono fatti questa ed analoghe domande i responsabili svizzeri del programma Tarpsy  incaricati dagli ospedali svizzeri (H+) e dalla direzione sanitaria del Canton Zurigo di realizzare il progetto di una “struttura tariffaria nazionale della psichiatria stazionaria” di arrivare a definire cioè l’effettivo costo del singolo trattamento di ogni disturbo psichico, sia esso un disturbo bipolare, un attacco di panico o una depressione, per giungere quindi ad un’unica tariffa nazionale dei disturbi psichici. La fase sperimentale del progetto è già stata avviata nel 2011, 28 sperimentazioni sono attualmente in corso e quest’anno sono disponibili i primi parziali risultati, oggetto peraltro di giudizi piuttosto scettici, riferisce la giornalista Christine Wanner del secondo canale radiofonico svizzero-tedesco
In un paese come la Svizzera, sostanzialmente pragmatico e in cui il profitto è tenuto in gran conto, non scandalizza certo l’idea di monetizzare il disagio psichico quanto piuttosto il fatto di non pervenire a risultati precisi e utili. Il direttore di una delle Cliniche interessate, Sanatorium Kilchberg, dolcemente adagiata sulla sponda del lago di Zurigo, è diretto “nessun risultato, a parte le spese”. Il direttore medico della stessa Clinica – ove ho lavorato nell’incerto tedesco nel mio primo contatto con la psichiatria svizzera secoli fa – aggiunge la spiegazione razionale: “Sappiamo da molti anni dall’esperienza di tutte le nazioni  in tutta la psichiatria che le diagnosi non aiutano praticamente per nulla a spiegare i costi prodotti” e che “la durata di degenza nelle cliniche psichiatriche, molto più che in altri campi, è completamente dominata da aspetti psico-sociali e da ulteriori fattori esterni”.
Il programma Tarpsy prevede invece di arrivare all’individuazione delle tariffe proprio sulla base della diagnosi principale e delle diagnosi collaterali e grazie alla misurazione del tempo in minuti (non siamo per niente in Svizzera!) che il trattamento nel singolo caso richiede. Non ho la minima competenza per immischiarmi in questioni di economia sanitaria. Sono anch’io piuttosto scettico e anche preoccupato dal rischio, peraltro negato fin dall’avvio del progetto dai responsabili, che si inneschi anche involontariamente una corsa al riconoscimento del trattamento psichiatrico più veloce piuttosto che più efficace. Qui mi interessa però sottolineare proprio la difficoltà di riuscire a  individuare i fattori di efficacia del trattamento psichiatrico e in particolare psicoterapeutico. Il che ci avvicina al cuore del problema: che cosa è davvero efficace nel trattamento psichiatrico/psicoterapeutico? L’unica risposta certa ma purtroppo abbastanza vaga che abbiamo per il momento è: ciò che conta ai fini terapeutici è la qualità del rapporto terapeutico indipendentemente dal tipo di terapia comportamentale, psicanalitica, sistemica etc. adottata dal terapeuta.
“The alliance between the patient(s) and the therapist (meaning affectionate and trusting feelings toward the therapist, motivation and collaboration of the client, and empathic response of the therapist) is a key factor
Questo è a tal punto vero che anche nella psicoterapia online, nella quale si potrebbe immaginare a prima vista che la relazione terapeutica sia ridotta al minimo, l’alleanza terapeutica risulta decisiva per l’esito della terapia  Poiché tuttavia l’instaurarsi e lo svilupparsi di un “buon” (cosa è buono?) rapporto terapeutico non è facilmente prevedibile, altrettanto difficile da prevedere è l’esito della terapia. Le singole forme di trattamento terapeutico sono degli indici piuttosto scarsi per l’esito positivo o negativo della terapia anche nel caso di disturbi psichiatrici gravi come quelli schizofrenici in cui si potrebbe invece immaginare che il tipo di trattamento faccia la differenza. È uno dei temi di un godibilissimo libro di Benedetto Saraceno “La fine dell’intrattenimento”, ormai antidiluviano essendo del 1995, le cui statistiche sono sicuramente superate ma i cui contenuti risultano ancora quanto mai attuali. Nella figura che ho messo in copertina Saraceno mette(va) su una retta i pazienti, su un’altra i possibili trattamenti terapeutici, su una terza i trattamenti realmente disponibili, su una quarta le diagnosi e e infine su una quinta gli esiti dei trattamenti stessi, e dimostra(va) che ” gli esiti sono indipendenti dalle variabili considerate”. Dello stesso avviso le conclusioni degli studi di Ciompi “le variabili diagnostiche e psicopatologiche [sono] secondarie per l’esito del processo riabilitativo, mentre variabili sociali e situazionali giocano un peso comparabilmente più importante”.  Ad analoghe conclusioni sono giunti pure l’International Pilot Study of Schizophrenia ed altre ricerche “tutte testimonianti una correlazione molto debole tra livelli di disabilità e di sintomatologia clinica”.
I veri fattori che influenzano gli esiti sono di difficile individuazione proprio perché insiti nelle risorse personali dei pazienti, spesso ma non sempre, mobilizzate nel corso della terapia di riabilitazione. È un “percorso di scoperta (saper vedere) e di apprendimento (saper usare)” simile a quello di Robinson Crusoe, ci dice Saraceno. “L’acqua, i frutti, i pesci, le frasche, gli arbusti infine il ‘selvaggio’ venerdì c’erano anche ‘prima’ ma sono scoperti solo ‘dopo’ l’affrancamento da saperi e affetti accecanti invece che illuminanti”
Questa è a mio avviso anche una bellissima metafora del cammino di ogni terapia che è sempre anche un passaggio dal non vedere allo scoprire ed usare le risorse che sono innanzi dentro ognuno di noi. Tale scoperta avviene però all’interno del rapporto terapeutico che, a differenza di quello Venerdì/Robinson, non è di subalternità ma invece di scambio reciproco, interazione, partecipazione, condivisione. Un concetto quest’ultimo che ci riporta all’attualità della nostra cultura digitale, “a culture that fosters collaboration as well as transparency”… “values of participation and “citizen science” (Prainsack, 2014)”. Questo è anche l’obiettivo di grandiosi progetti quali quelli di BRAIN, lanciato dall’amministrazione USA e quello europeo del European Human Brain Project – “Higgs boson of the brain” (Honigsbaum, 2013) – fondati proprio sulla premessa di open-source software and databases e sulla condivisione su larghissima scala di dati “in the magnitude of yottabytes” “to model the complex interactions between the brain and behavior and inform the diagnosis and prevention of neurological disorders and psychiatric disease
Forse più da questi big data coordinati che dal minutaggio svizzero dei tempi di  degenza dei disturbi psichici è lecito attendersi qualche informazione in più sui fattori efficaci in psichiatria e psicoterapia. Solo a condizione tuttavia che rimanga vivo nello scambio e nella ricerca lo spirito di Robinson di vedere con nuovi occhi.