“Art is therapy” (?)
Se qualcuno al museo si mettesse a piangere davanti a un quadro – constata provocatoriamente Alain De Botton – verrebbe preso per strano e forse portato via da un guardiano. Parte da qui il filosofo svizzero naturalizzato inglese Alain De Botton per riflettere sul significato a suo avviso inadeguato che l’arte ha assunto nell’ultimo secolo e per sviluppare le sue considerazioni sull’arte come terapia. E miglior luogo Alain de Botton e John Armstrong non avrebbero potuto sceglierlo: Il Rijskmuseum di Amsterdam (dal 25 Aprile al 7 Settembre) nell’Olanda dell’avanguardia sociale e culturale. Progettato nel XIX secolo proprio come un sostituto delle vecchie chiese, una sorta di cattedrale laica dell’arte, da poco splendidamente rinnovato architettonicamente e concettualmente, il Rijsk è la sede ideale per le riflessioni del filosofo e dello scrittore, esposte lungo le sale, ma anche fuori dalla porta d’ingresso, in biglietteria, sulla terrazza dell’edificio, in forma di giganteschi e spiegazzati post-it, una sorta di graffiti filosofici. La tesi di Alain De Botton, che egli ha già più compiutamente esposto nel suo “Art is therapy”, è relativamente semplice e, come egli stesso riconosce, non proprio originale, essendo assai simile allo stesso spirito che che aveva animato allora la costruzione del museo, secondo cui “art would bring us meaning, consolation, direction and comfort, just as the pages of the Bible once had”. L’arte ci dice oggi Alain De Botton “può curare le nostre anime e mostrarci come vivere”.
“Art matters because it offers us assistence in the project of getting on well with our lives, coping with our sorrows, remembering what matters to us, avoiding what hurts us, guiding us to our better natures, rebalancing the excesses of our characters and expanding our sympathies”.
Ne scaturisce un salutare capovolgimento di prospettiva della visita al museo, che non è più – ammesso lo sia mai stata – un’occasione per imparare l’arte, ma un percorso che si propone addirittura “di rendere la vita leggermente meno dolorosa”. Il protagonista della visita cessa di essere l’arte e diviene il visitatore stesso, le sue speranze, le sue delusioni, le sue sofferenze, i suoi desideri”. In tal modo “l’arte può essere vista e goduta per il suo potente effetto terapeutico”. L’arte è dunque terapia. Alain De Botton riesce a costruire con intelligenza e originalità il suo percorso guidato all’interno del museo facendo parlare opere d’arte famose ma anche dipinti, incisioni, sculture meno celebri, vasellame, modellini, oggetti della vita quotidiana. 150 oggetti d’arte dal medioevo all’età contemporanea passando anche dall’arte asiatica, ci raccontano del nostro modo più o meno adeguato o “malato” di affrontare destino, denaro, sesso, memoria ma anche di gestire relazioni, amore e religione, futuro…
Mi sono più volte chiesto durante il percorso cosa intenda Alain De Botton per terapia, a quale forma attualmente conosciuta e scientificamente riconosciuta di (psico)terapia faccia riferimento e se non sia più opportuno – e modesto -parlare di un aiuto offertoci dall’arte. Un aiuto prezioso, insostituibile che ci consente di (ri)trovare accesso a noi stessi e al nostro disagio e di lenirlo. L’arte come ponte e consolazione per il nostro disagio?
Ma soprattutto i post-it filosofici di Alain De Botton e Armstrong raggiungono davvero il dichiarato scopo di consentire all’arte “to speak to the visitors in highly original and unexpected way..throwing an entirely new light on the collection” – come sostengono con non proprio inglese understatement gli stessi autori?
Posso solo raccontare come mi sono sentito. Seguendo, all’interno del museo, il percorso “terapeutico” – con specifica audio guida al collo, post-it a lato e frotte di turisti accanto a me – ho imparato molte cose, cominciato a riflettere su altre, intuito nuovi collegamenti ma non sono riuscito a togliermi di dosso quella sensazione di discepolo adulto che gli autori si propongono proprio di sconfiggere. Forse il vero percorso di Alain de Botton inizia a questo punto, con le pagine volutamente bianche (anzi gialle) del suo catalogo , pure in forma di post-it, che non a caso si conclude con la frase: “There is no such thing as great art per se, only art that works for you”.
Il giorno prima fresco di entusiasmo per una meravigliosa Amsterdam a misura d’uomo sono entrato in un’isola di simpatica ed empatica gentilezza, sensibilità architettonica e umana, pulita eleganza e discreta tolleranza che curiosamente viene chiamata museo. Ho potuto fotografare con il cellulare per accorgermi subito dopo che era possibile creare via audio guida un proprio account e farsi inviare una riproduzione di tutti gli oggetti d’arte preferiti. E dopo poche sale di una bellezza discreta, tenera, paradossalmente mai esibita mi sono commosso fino alle lacrime. Mia moglie mi ha abbracciato e per fortuna nessun guardiano mi ha portato via e nessun collega ha fatto diagnosi di s. di Stendhal.