“È più facile parlare della morte piuttosto che della vita di una persona affetta da depressione.” Questa la sconsolata considerazione cui giunge, prendendo spunto dal recente suicidio di Robin Williams e dalla reazione allo stesso dei media, l’editoriale di Nature nella sua attuale edizione speciale dedicata alla depressione. Un’edizione da non perdere (la maggior parte degli articoli sono tra l’altro gratuiti), non tanto perché contenga sconvolgenti novità nella comprensione e/o nel trattamento della malattia quanto piuttosto perché fa, molto criticamente, il punto sulle insoddisfacenti strategie di ricerca finora utilizzate, mette in discussione i concetti attuali e suggerisce – discutibilmente – possibili nuovi percorsi.
Il punto di partenza è quello che si conosce da tempo, da quando cioè alla fine degli anni 90 si è cominciato a parlare di depressione come di una bomba a tempo. Che sta scoppiando. 350 milioni! di persone soffrono attualmente nel mondo di depressione. La disabilità che tale malattia produce può inoltre trascinarsi per anni, anche perché molto spesso, soprattutto, ma non solo, nei paesi in via di sviluppo, non è diagnosticata o non lo è correttamente e ancor meno correttamente trattata e le cure non sono sempre efficaci – ma vale la pena di ricordare che dalla depressione si guarisce in oltre l’80% dei casi! Ne consegue che la depressione è la prima causa mondiale di disabilità, misurata in anni “persi” (YLD) perché vissuti con disabilità fisica o psichica. Con 76,4 milioni di anni persi, la depressione rappresenta infatti il 10,3 % del carico totale di disabilità, battendo di gran lunga malattie somatiche quali disturbi respiratori, cardio-vascolari, diabete etc. Se si considera poi che alcolismo e disturbi d’ansia sono al 5 e 6 posto (con rispettivamente 27,9 e 27,6 milioni di anni persi) di tale poco invidiabile classifica delle cause di disabilità, si ha una sintetica idea dell’impatto devastante che hanno i disturbi mentali a tutt’oggi, nonostante gli outing di tanti depressi famosi e le benemerite campagne pubbliche contro lo stigma della depressione. In realtà il quadro è molto sfaccettato e i tassi della depressione, e sopratutto le risorse e le strategie contro la stessa e le malattie mentali in genere sono molto diverse nei diversi paesi. Come ben evidenziato dall’infografica di Nature i tassi di prevalenza della depressione possono variare dal 22,5 % dell’Afganistan al 3,02 % della Cina, anche se in questo caso le percentuali basse sono dovute più a mancanza di diagnosi che a mancanza di malattia. Per non dire della disparità di risorse materiali ed umane: se metà della popolazione mondiale vive con 2 psichiatri per centomila abitanti, la Svizzera ne ha quaranta (me compreso). Non si può certo dire che le folte schiere psichiatriche rendano i cittadini elvetici psichicamente più sani (la prevalenza di depressione ad es. è stimata in Svizzera al 6,16 mentre in diversi paesi europei è intorno al 5 e negli Stati Uniti al 4,45) il ché potrebbe far legittimamente dubitare degli psichiatri svizzeri se non della psichiatria in generale, dubbio non proprio nuovo. Ma il confronto con il sistema sanitario e in particolare il costosissimo ma accessibilissimo e dotatissimo sistema di assistenza psichiatrica/psicoterapeutica svizzero consente di mettere a fuoco alcuni punti, che rimangono in ombra nella pur straordinariamente ricca e stimolante sintesi di Nature.
Innanzitutto l’aspetto socio-culturale. La depressione, sindrome biologica sostanzialmente univoca, si declina però diversamente nei diversi contesti socio-culturali, assumendo anche caratteri, quadri clinici e significati culturali e sociali, oltre che individuali, diversi. All’inizio della mia attività di psichiatra in Svizzera con in mente ancora l’immagine dei/delle depresse italiane distese esanimi in lacrime su letti disfatti facevo fatica a trovare la depressione nei volti composti ed irrigiditi di svizzere/i in lotta col dovere morale del lavoro. A parità di sofferenza le manifestazioni e le interpretazioni della stessa sono assai diverse.
L’elvetica facilità d’accesso alle cure, cioè all’assistenza psichiatrica e anche psicologica!, la loro sostenibilità economica e la libertà di scelta delle terapie e del terapeuta anche per le persone meno abbienti – senza farraginose burocrazie di uffici, autorizzazioni, code eccetera – giocano a questo punto un ruolo decisivo. Tali condizioni consentono infatti alla persona malata di sentirsi riconosciuta e sostenuta nella propria sofferenza e di svolgere almeno un (piccolo) ruolo attivo nella scelta di come e da chi farsi curare. E con la terapia di far crescere e sviluppare lo spazio della riflessione interiore e della consapevolezza, che rimangono essenziali anticorpi contro le malattie mentali. Certo questa è solo una parte del problema.
L’altro aspetto,su cui si focalizza l’attenzione di Nature è l’efficacia rispettivamente l’inefficacia delle terapie e la prevedibilità delle stesse nel singolo paziente. Se è vero che la terapia farmacologica con antidepressivi e meglio ancora la terapia combinata farmacologica e psicologica è molto efficace garantendo una guarigione nell’80% dei casi, è doveroso riconoscere con Nature che c’è ancora molto da fare sia per quanto riguarda la terapia farmacologica, che per la comprensione dei meccanismi della malattia e a maggior ragione per la validazione delle diverse forme di psicoterapia. Semplificando si può dire che negli ultimi decenni si è assistito ad una sostanziale stagnazione nel mercato degli antidepressivi. Ne sono stati sintetizzati certo diversi con molto minori effetti collaterali, ma non significativamente più efficaci dei vecchi triciclici. Non è affatto vero che l’ingordigia economica faccia produrre alle case farmaceutiche troppi antidepressivi È piuttosto vero il contrario, gli elevatissimi costi di sperimentazione, la tendenza al risparmio e ad andare sul sicuro ha indotto le case farmaceutiche a sintetizzare relativamente pochi nuovi antidepressivi con il rischio di una riproposizione di molecole molto simili tra loro. Ora i risultati per certi versi sorprendenti dell’impiego endovenoso di ketamina nei pazienti depressi sembrano aprire strade nuove sia alla sintesi di nuovi farmaci sia alla comprensione di meccanismi della malattia diversi da quelli noti (deficit di amine biologiche, serotonina, noradrenalina, dopamina). Ma è soprattutto sul versante delle psicoterapie che le incertezze sono maggiori, e i fondi per la ricerca molto più scarsi (solo il 15% del totale). Quali psicoterapie sono davvero efficaci e soprattutto quali per chi? Anche qui però si stanno facendo passi importanti. È di questa settimana la notizia riportata da Nature della scoperta del primo potenziale biomarker per poter discriminare in partenza tra pazienti depressi che rispondono ai farmaci e altri invece che rispondono alla terapia cognitiva
“The study, led by neurologist Helen Mayberg of Emory University in Atlanta, Georgia, used positron emission tomography (PET) scans to measure metabolic activity in various brain regions of people with untreated depression (see also Nature). Patients were randomized into groups and treated for 12 weeks with either a commonly used antidepressant drug or cognitive behaviour therapy. The study’s results were clear-cut. Below-average activity in a brain area called the right anterior insula — which is linked with depression-rele- vant behaviours such as emotional self-awareness and decision-making.”
Sempre di questi giorni è la notizia, che non ho ritrovato su Nature, di un altro potenziale biomarker capace di indicare quali pazienti depressi risponderebbero e quali no alla psicoterapia di tipo psicodinamico La psicoterapia, per intenderci, originatasi dalla psicoanalisi freudiana, centrata sull’analisi delle precedenti esperienze e in particolare dei rapporti del paziente, a partire da quello paziente-terapeuta analizzato alla luce di transfert e contro-transfert. Quella insomma che viene spesso confusa con la psicanalisi e giudicata inefficace se non addirittura come non-scienza.
“Psychodynamic psychotherapy might be considered the original form of ‘personalized medicine,’ since it draws directly from a patient’s unique experiences to shape the course of treatment,” says Joshua Roffman, MD, MGH Department of Psychiatry, lead author of the report. ”
Non solo è stato (da tempo) dimostrato che la psicoterapia di tipo psicodinamico è efficace contro la depressione così come contro altri disturbi mentali ma è stato ora possibile dimostrare una correlazione diretta tra il metabolismo di una particolare regione cerebrale e la risposta a questo tipo di terapia.
Nel recente studio 16 patienti depressi che non rispondevano alla terapia farmacologica! sono stati sottoposti per 16 settimane ad una terapia psicodinamica – videoregistrata e controllata da altri psichiatri – e sono stati sottoposti a PET prima e dopo la terapia. 9 dei pazienti inoltre hanno portato a compimento l’intera terapia e 7 l’hanno invece interrotta.
Ebbene, è stato anzitutto dimostrato che la riduzione dell’attività metabolica di una specifica regione cerebrale, l’insula anteriore, prima e dopo il trattamento era significativamente correlata con una maggiore riduzione dei sintomi depressivi e con il grado di insight, di consapevolezza cioè dei partecipanti allo studio.
Inoltre la PET prima del trattamento terapeutico ha evidenziato una significativa differenza tra l’attività metabolica di un’altra area cerebrale, il precuneato (la regione posta cioè all’estremo del lobo parietale, appena prima del cuneo occipitale) tra pazienti che hanno successivamente portato a termine o la psicoterapia psicodinamica e quelli che l’hanno interrotta. I pazienti con una maggior attività metabolica nel precuneato – regione già associata con la consapevolezza di sé e la memoria – dimostravano anche una maggiore “psychological mindedness”, la capacità cioè di riconoscere e comprendere le proprie emozioni, motivazioni e azioni, e per lo stesso motivo portavano a termine con successo la terapia psicodinamica. Il contrario invece per quelli con ridotta attività metabolica nel precuneato, destinati ad interrompere la terapia psicodinamica.
“As with all psychiatric interventions, it is notoriously difficult to know ahead of time who is likely to have a good response to psychodynamic psychotherapy and who is not,” says Roffman, an assistant professor of Psychiatry at Harvard Medical School. “Identification of biological markers that could predict treatment success is a ‘holy grail’ in psychiatry; and while the measured differences in psychological mindedness between completers and noncompleters were insignificant, the significant difference in precuneus metabolism suggests that it may a sensitive predictor of treatment response, something that needs to be confirmed in larger trials.”
Altri straordinari progressi sono auspicabili ed immaginabili, soprattutto se neuroscienziati e psichiatri ma anche psicanalisti, psicologi, sociologi, antropologi etc intensificheranno il dialogo da poco timidamente avviato.
Forse tra pochi anni PET e magari esami molto più semplici ci diranno in anticipo qual è la terapia più adatta per ogni tipo di disturbo psichico. La doverosa attenzione alla scientificità dei metodi psicoterapeutici non deve però far dimenticare l’insostituibile unicità del rapporto paziente/terapeuta, che, indipendentemente dal tipo di terapia, continua ad essere a tutt’oggi il principale fattore di guarigione. Perché come diceva Balint “la terapia si realizza né nel paziente né nel medico [terapeuta] ma tra i due”.