“Proviamo a scalfire gli stereotipi non attraverso le teorie, ma costringendo le persone a mettersi davvero nei panni di un altro e ad agire per lui” dicono gli autori (Auriea Harvey e Michäel Samyn) del “videogioco più rivoluzionario sulla guerra civile”, Sunset Come racconta @serena_danna ne @La_Lettura di domenica scorsa, la protagonista del videogioco, Angela “osserva scivolare una città immaginaria del Sudamerica verso il conflitto civile” ma non spara, tiene invece un diario costringendo i/le giocatori/trici a sentire e a pensare con lei.
Quando leggo in una lettera di un soldato bresciano ucciso nella prima guerra mondiale” Una notte mi sono insomiato [sognato] del mio Giovanino che mi chiamava buba buba poverino” vengono anche a me le lacrime agli occhi come a quel soldato che il suo Giovannino non l’ha più rivisto. Non provo certo quello che ha provato lui quando ha scritto quella sua sgrammaticata quanto drammatica lettera ma le sue parole suscitano in me emozioni dello stesso genere che mi fanno per un momento sentire la voce di mio figlio da piccolo mentre mi teneva la mano prima di addormentarsi. Prima ancora di pensare e riflettere, vivo emozioni e sensazioni corporee simili a quelle del mio sfortunato conterraneo tali da farmelo per un breve momento incontrare e forse comprendere.
Quando un mio paziente bosniaco musulmano mi racconta di esser stato messo davanti all’alternativa di assumere un nome cristiano o di continuare ad essere recluso in un campo di concentramento in cui aveva visto i suoi amici morire, posso mettermi sulla sua lunghezza d’onda solo se mi lascio per un momento prendere da quell’orrore e subito dopo aiuto me e soprattutto lui a distanziarsene e a proteggersene.
Sarei stupido oltre che colpevolmente incompetente se mi lasciassi a tal punto coinvolgere dagli stati emotivi altrui da rispecchiare pari pari l’ansia al paziente ansioso, l’inconsolabile disperazione al depresso, l’angoscia psicotica allo schizofrenico. Questa non sarebbe empatia ma semplice (stupido e deleterio) contagio emotivo, simile a quello dei bambini piccoli che ridono o piangono quando il compagno ride o piange o di noi “bambini grandi” che urliamo di gioia o di rabbia quando i nostri vicini di stadio, corteo, social network fanno lo stesso. D’altro canto la mamma non potrebbe tranquillizzare il suo bambino che piange se prima di consolarlo non prendesse emotivamente parte alla sua sofferenza – che è cosa molto diversa dal capirla razionalmente, come deve fare invece il pediatra.
Per essere davvero empatico nei confronti dell’altro/a – dice Kutter – devo potermi almeno per un momento identificare con l’altro/a ma devo poi anche distanziarmene razionalmente ed oscillare tra queste due funzioni (mettermi nei panni altrui e stare nei miei). L’aveva già capito e descritto con cristallina precisione filosofica (anche se con terminologia un po’ ansiogena) Edith Stein quando nel 1917 scriveva la sua tesi di dottorato non sul tema ma sul problema dell’empatia.
“Nell’istante in cui il vissuto emerge improvvisamente dinanzi a me – scrive la Stein – io l’ho dinanzi come Oggetto (ad esempio l’espressione di dolore che riesco a “leggere nel volto” di un altro).” Quando però cerco di chiarire “lo stato d’animo in cui l’altro si trova, quel vissuto non è più Oggetto nel vero senso della parola, dal momento che mi ha attratto dentro di sé, per cui adesso io non sono più rivolto quel vissuto ma immedesimandomi in esso, sono rivolto al suo Oggetto, lo stato d’animo altrui e sono presso il suo Soggetto, al suo posto”. È il momento in cui vado oltre superficiali convenevoli e rassicuranti frasi fatte e decido (o meno) di confrontarmi in profondità con il vissuto ad es. il dolore dell’altro/a. Mi lascio cioè coinvolgere dal suo dolore dimenticando per un momento i miei impegni, appuntamenti, preoccupazioni, gioie. È però un dolore che non scaturisce da me, è dunque per me “non originario” ma è originario per l’altro Soggetto, che lo sta vivendo. Nel momento in cui questi due vissuti (mio e dell’altro/a) vengono a contatto dentro di me, si realizza un confronto tra esperienze emozionali ma mai una sovrapposizione, un’identificazione [e qui la Stein si oppone chiaramente a Lipps che sosteneva che i due Io potessero diventare nell’empatia uno solo]. Dopo che ho fatto esperienza emozionale del dolore altrui, tale vissuto “torna di nuovo dinanzi a me come Oggetto” ed io posso comprenderlo ed esplicitarlo razionalmente, distanziandomene. Torno cioè nei miei panni riponendo il dolore altrui in un cassetto razionale, adeguatamente imbottito e a prova di (dolorose) emozioni.
Ogni processo empatico (a maggior ragione con valenza terapeutica) potrebbe dunque essere rappresentato come un processo a tre tempi in cui il vissuto dell’altro/a sta dapprima davanti a me, mi trascina poi dentro l’altro/a nel multiforme e variabile movimento di interazione con i suoi vissuti e infine sta nuovamente davanti a me nella chiarezza della comprensione ed interpretazione razionale.
[ Il decisivo secondo movimento di tale triplice processo presenta caratteristiche sia passive che attive che trovano la loro migliore formulazione nelle parole della Stein e di Gadamer. La prima usa una formulazione passiva ” essere attratto” ( “quel vissuto…mi ha attratto dentro di sé”). Gadamer invece riferendosi allo stesso processo parla in forma attiva di ” mettersi nella situazione dell’altro”. Le due formulazioni danno conto delle caratteristiche attive e passive insieme dell’empatia, che è atto e accadimento insieme, nel quale decido (consapevolmente) di lasciar accadere (inconsciamente) qualcosa in me come nel sonno (Merleau- Ponty), nella danza, nella musica. ]
Queste non sono solo polverose e curiose elucubrazioni fenomenologiche ma ipotesi che hanno trovato riscontro e straordinario sviluppo, come si sa, con la scoperta dei neuroni specchio e la conseguente teoria della simulazione incarnata proposta da Gallese. Come scrive egli stesso in Neuroscienze e teoria psicoanalitica si è ” scoperto che le stesse aree [cerebrali] che si attivano quando proviamo dolore…si attivano anche quando osserviamo l’espressione del dolore altrui…. Similmente, le stesse aree che si attivano quando il nostro corpo è toccato… si attivano anche quando osserviamo toccare il corpo altrui…. Infine le stesse aree che si attivano quando proviamo di disgusto -insula anteriore e corteccia cingolata anteriore-si attivano anche quando osserviamo qualcuno esprimere disgusto.” Ma – come intuiva la Stein in contrasto con Lipps – “la condivisione è solo parziale. L’insula anteriore si attiva in entrambe le condizioni, ma altre parti del cervello si attivano unicamente per il mio disgusto e non per quello altrui”.
“Empatizzare significa proprio questo: capire cosa prova l’altro essendo consapevoli che ci si riferisce alla dimensione esperienziale dell’altro” (Gallese)
Ciò avverrebbe in modo pre-riflessivo ed inconscio tramite il sistema specchio. Secondo la teoria della simulazione incarnata proposta da Gallese infatti “possiamo mappare le emozioni e sensazioni altrui sulle nostre rappresentazioni somatosensoriali e visceromotorie” in modo preconscio. A differenza della teoria della mente secondo la quale per capire l’altro ci mettiamo volontariamente e solo razionalmente nei panni dell’altro, ” con la simulazione incarnata riutilizziamo i nostri stati e processi mentali rappresentati in un formato corporeo per attribuirli al funzionamento degli altri senza bisogno di rendere esplicito questo processo di attribuzione”. In realtà i due processi, quello riflessivo di comprensione razionale e quello preconscio di simulazione incarnata, non si escludono a vicenda ma anzi si integrano con prevalenza variabile a seconda delle circostanze. Secondo alcuni tra cui Gallese, i soggetti autistici non riuscirebbero a percepire immediatamente gli stati d’animo altrui proprio perché privi o carenti del sistema specchio e si dovrebbero a tale scopo affidare alla sola elaborazione razionale della teoria della mente.
Ma poi c’è ancora da precisare l’effetto sull’empatia dell’ossitocina, sul quale fa il punto un bell’articolo dell’attuale numero di Nature Originariamente considerato l’ormone del parto e dell’allattamento, a partire dagli anni 70 l’ossitocina ha rivelato un ruolo sempre più decisivo nell’instaurarsi di legami con la prole ma anche tra partner e all’interno di gruppi.
Passata la fase dei pipistrelli resi fedeli e dalle topoline rese madri premurose dall’ossitocina, e di tanti altri un po’ troppo altisonanti e frettolosi studi in cui spray di ossitocina inducevano di volta in volta fiducia, empatia, socievolezza , l’attenzione si va appuntando ora sulla capacità modulatoria dell’ormone nei confronti di vari sistemi neuronali. E poi c’è il tema della possibile correlazione con l’autismo. Nel febbraio 2015 il team del neurogenetista Geschwind dell’Università di Los Angeles ha dimostrato per la prima volta inequivocabilmente una correlazione tra deficit di ossitocina e un gene anomalo (CNTNAP2) responsabile nell’uomo di una forma di autismo. Il suo team ha infatti evidenziato che topi con tale anomalia genetica presentavano una ridotta quantità di neuroni contenenti ossitocina nell’ipotalamo e parallelamente una ridotta interazione sociale. Dopo la somministrazione di ossitocina per due settimane i topi tornavano ad un comportamento sociale normale. Linmarie Sikich, neuropsichiatra infantile dell’Università del North Carolina sta ora allestendo uno studio che prevede la somministrazione per 6 mesi di ossitocina o placebo in doppio cieco a 300 soggetti autistici dai 3-17 anni.
Come si vede l’empatia suscita grande interesse nelle neuroscienze, che da questo stimolante concetto delle scienze umane e sociali traggono affascinanti e promettenti spunti di ricerca.
Ma l’empatia può fare anche paura. Perché ci rende al tempo stesso consapevoli della nostra ed altrui vulnerabilità. Vale infatti anche per l’empatia quello che Phillip scrive della Kindness “È un rischio proprio perché mescola i nostri bisogni e i nostri desideri con i bisogni e i desideri degli altri, in un modo che resterà sempre precluso al cosiddetto auto interesse” Forse per questo c’è chi – come Don Ferrante con la peste –
all’empatia preferisce negare l’esistenza.
Suggerimento musicale: enja one stop licensing, balkan moods, Empathy