Come raccontare il manicomio alla generazione dei nativi digitali? The town of light, di cui riferiva ampiamente @lucatremolada su Nòva sceglie la strada del “romanzo storico” tecnologicamente arricchito per raccontare, attraverso i ricordi di una paziente, “quanto è accaduto nel famigerato manicomio di Volterra negli anni Trenta”. Ma l’innovazione tecnologica coincide in questo caso con l’innovazione culturale? A detta della società italiana di psichiatria no, tanto che il suo presidente, Claudio Mencacci, in un apposito comunicato afferma: “Il rischio reale e drammatico legato ad iniziative commerciali come il videogioco di cui parliamo è quello di far passare ancora una volta- attraverso il potere evocatore di immagini del passato sapientemente gestite ed enfatizzate- una idea della psichiatria intesa come sistema di cure intrinsecamente violento ed oppressivo, basato su metodi coercitivi, lesivi della dignità delle persona, oltre che privi di effettiva efficacia terapeutica”. È proprio così? Sono davvero le immagini a favorire un’identificazione acritica e mistificante mentre il testo scritto consentirebbe di per sé distanza obiettivante e riflessione critica? Non è piuttosto l’ideologia a privare di ambivalenza, di sfumature e dunque di ricchezza qualsiasi espressione artistica? Certo un’opera come Gli ultimi giorni di Magliano di Tobino è unica per la capacità di farci rivivere l’atmosfera alienante dei manicomi, la sofferenza dei pazienti, l’impotenza dei curanti di fronte alla follia, un’impotenza generatrice di violenza. Ma il manicomio, pur se non protagonista, fa da sfondo a innumerevoli opere artistiche e letterarie in particolare, assumendo di volta in volta sfaccettature diverse. In Marco e Mattio di Vassalli il manicomio di S. Servolo a Venezia rappresenta il fatale esito della parabola di Mattio, il povero ciabattino della valle di Zoldo sconvolto dalla pellagra e dagli avvenimenti del suo tempo a tal punto da trovare nel delirio di poter salvare il mondo con la sua auto-crocifissione l’unica via d’uscita. In un racconto di A. Molesini ancora il manicomio di S. Servolo diviene presagio e simbolo dell’imminente prima guerra mondiale e del tragico meccanismo di distruzione innescato da folli quanti colpevoli rivendicazioni e vendette costate la vita a milioni di uomini. Di fronte a quelle stragi immani, frutto di una follia collettiva portata a compimento con tanto meticoloso rigore, appare ancora più assurda la sofferenza inferta a tanti poveri malati, colpevoli solo della loro malattia. Come scrive Borgna “non sono stati i manicomi a creare la malattia, la sofferenza psichica, ma è stato il manicomio a creare la sofferenza inutile”.
Mi trovo a S. Servolo, sull’isola in cui è morto Mattio Lovat, il ciabattino di Zoldo e tanti altri poveri cristi hanno sofferto, oltre a quella della malattia, una sofferenza inutile. Sono con giovani colleghi di un gruppo di supervisione. Condivido con loro l’incanto di un’isola che per una volta l’intelligenza di un’amministrazione ha trasformato da deserto di sofferenza e di abbandono a luogo di memoria e di riflessione culturale. Una moderna struttura ci accoglie con eleganza italiana. Il vecchio manicomio è stato trasformato in un museo che visitiamo accompagnati da una simpatica guida in un ottimo inglese. Siamo psichiatri di generazioni diverse provenienti da mezz’Europa.
Le schiere dei turisti sono lontane, le nostre emozioni si mescolano solo con lo sciabordio delle onde e il profumo delle magnolie già in fiore.
Ripenso alle parole di Borgna, che nel suo ultimo libro “L’indicibile tenerezza” non esita ad associare i “deserti luoghi” del manicomio in cui ha lavorato cercando di umanizzarlo, alle “strazianti esperienze” che Simone Weil ha trascorso nelle fabbriche, Etty Hillesum nel campo di concentramento, madre Teresa di Calcutta nelle periferie delle città indiane ma anche occidentali. “Certo luoghi non confrontabili” dice Borgna stesso. “Ma – aggiunge – le esperienze di Simone Weil, di Etty Hillesum, di madre Teresa di Calcutta, le loro indicibili sofferenze, come quelle dei manicomi, non possono essere dimenticate”, facendo riferimento a una comune radice del male, che consiste “nel negare all’uomo la sua dignità e la sua soggettività, e nel considerarlo una cosa: un semplice oggetto”. Da non dimenticare a maggior ragione poiché “se anche i manicomi in Italia sono stati cancellati, non sono scomparsi i pregiudizi fatali nei confronti della genesi e della natura dei disturbi psichici, e della loro cura”. Innanzitutto “il pregiudizio (ancora oggi trionfante) che la sofferenza psichica, la follia, non sia se non perdita di senso, deserto delle emozioni, destrutturazione dei pensieri e perdita radicale della libertà” mentre “non sono riconosciuti fino in fondo i valori di sensibilità e di fragilità, di gentilezza dell’anima e di nostalgia disperata di dialogo e di accoglienza, che fanno parte di ogni forma di sofferenza psichica”.
Sottrarre nei tanti modi possibili, i “luoghi del deserto manicomiale” al “drago dell’oblio”, ripensare al dolore, non è solo un atto di giustizia nei confronti di quelli che hanno sofferto un’inutile sofferenza. È anche un modo per smascherare attuali luoghi e modelli di indifferenza e di violenza che sono intorno e dentro di noi. Per mantenere una speranza che sia memoria del futuro.