“Mi piace chi sceglie con cura, le parole da non dire” scrive Alda Merini, senz’altro una delle poetesse più citate, soprattutto sui social media. Che poi, si sa, “la maggior parte delle citazioni su Internet sono false” sosteneva saggiamente già Aristotele . Ad essere false non sono però solo le citazioni, in Internet o sui libri stampati, ma anche le nostre parole, i nostri racconti. Non solo perché li costruiamo o li facciamo costruire coscientemente falsi ad arte. Perché, come scriveva, davvero, Luca De Biase, qualche settimana fa in un suo bel post, chi sa usare la tecnica dello storytelling “può essere un generoso narratore o un bieco manipolatore, con tutto quello che c’è in mezzo” e lo storytelling può diventare “una tecnica fine a sé stessa” che può creare “bolle narrative” in cui il senso critico sparisce e la storia non si fa. E forse neanche perché il nostro stesso cervello ci imbroglia, come scrive Bear in uno studio già citato “Perhaps in the very moments that we experience a choice, our minds are rewriting history, fooling us into thinking that this choice—that was actually completed after its consequences were subconsciously perceived—was a choice that we had made all along.” Credo che talvolta le nostre parole, storie siano false semplicemente perché stanno al posto di un silenzio di cui non abbiamo il coraggio. Possiamo certo dare la colpa ai social media, a Internet, ai mass media, come prima la davamo al telefono, ai circoli letterari e Platone alla scrittura. Ad una professione come la mia in cui tanto viene attribuito alla parola e nelle quale faccio quotidianamente l’esperienza di quanto essa nasconda e di quanto poco essa possa, quando più sarebbe necessario. Forse proprio per questo è così necessario il silenzio. Per ritrovare la possibilità di senso della parola. Il silenzio caldo del mare e quello freddo delle montagne. Quello raccolto e forse religioso di un chiostro e quello coltivato e sorprendente di un giardino Quello accogliente di un abbraccio.
E un’arte come quella della poesia, che può solo sbocciare dal silenzio e che della rarefatta densità della parola fa la sua regola. E la musica che sembra giungere dove la parola non riesce. E l’opera che riesce a fonderle in uno straordinario mix. A maggior ragione se si confronta con temi che appaiono inesprimibili come quello della disperazione e della sofferenza mentale. Pochi giorni fa, il 24 maggio è andata in scena a Londra la prima di 4.48 Psychosis di Philip Venables cui è riuscito di trarre un’opera dall’omonimo pezzo di Sarah Kane che poco dopo averlo scritto nel 1999 si era suicidata. Un racconto della sua depressione e disperazione.
The story – such as it is, in a very free form in which the script provides no indication of cast or which character is speaking at any one time – apparently takes in someone waking up in the early hours of the morning and realising they need psychiatric help, being diagnosed with depression, undergoing drugs and ECT treatment, neither of which provide long-term solutions, entering a brief period of remission and moments of sanity before suffering a relapse and making a decision not to continue living.
Forse anche dal tentativo di dare espressione artistica a quella disperazione di vivere e comunicare è possibile trarre speranza per una parola carica di senso.