Un altro studio conferma che la fiction migliora la nostra capacità empatica anche nel mondo reale. Non è il primo e si può facilmente immaginare non sia l’ultimo. Il filone sembra tirare. La ricerca condotta da Keith Oatley, Department of Applied Psychology and Human Development at the University of Toronto e recentemente pubblicata sul journal Trends in Cognitive Sciences, dimostra che
“compared with subjects who read non-fictional books, those who read fictional books had significantly higher test scores, indicating a much higher level of empathy”
Nello studio in questione il livello di empatia è stato misurato con il “Mind in the Eyes Test,” in cui al probando è richiesto di osservare 36 immagini di occhi di persone e di abbinarvi l’aggettivo (tra quattro) che meglio descrive lo stato d’animo del soggetto fotografato in questione. Da altri studi emerge che persone che avevo letto il romanzo Saffron Dreams – la finzione narrativa di una donna musulmana a New York – presentavano una maggiore empatia verso soggetti di altre etnie rispetto a persone che non avevano letto libri di narrativa. E altre ricerche dimostrano che pure la fiction televisiva – ma non i documentari – migliorano l’empatia. E qui credo che non solo Aldo Grasso avrebbe qualcosa da obiettare. Se è certo vero che, come sostiene Oatley “Fiction can augment and help us understand our social experience”, credo sia assolutamente necessario domandarsi subito dopo perché ci sia così poca empatia in giro, visto che, se le librerie (di narrativa e non) purtroppo chiudono, le fiction televisive (purtroppo) dilagano. Se la correlazione tra fiction e empatia fosse così lineare (e così facile confermarla con un paio di risonanze magnetiche funzionali) ci dovremmo aspettare il migliore dei mondi possibili, di cui però non mi sembra di scorgere traccia.
Senza aver naturalmente risposte, trovo allora interessanti le conclusioni di un altro studio farmacologicamente banale ma psicologicamente e “filosoficamente” a mio avviso intrigante in quanto apre ad altre, meno scontate, direzioni di ricerca. Ricercatori dell’Università dell’Ohio hanno dimostrato che un farmaco antidolorifico molto impiegato in tutto il mondo il paracetamolo non solo riduce il dolore ma riduce anche la nostra capacità di intuire il dolore altrui e dunque di empatizzare con gli altri. Altri studi avevano già dimostrato che il paracetamolo può ridurre anche il dolore psicologico derivante dal rifiuto sociale e che esso riduce la risposta a stimoli sia negativi che positivi. Ora lo stesso gruppo di ricercatori ha testato il farmaco in relazione alle capacità empatiche con tre diversi esperimenti. Nel primo è risultato che i soggetti che avevano assunto il farmaco ed avevano letto brevi racconti incentrati sul dolore valutavano il dolore dei personaggi meno grave dei soggetti che in avevano assunto il farmaco.
The team found that the individuals who had consumed acetaminophen rated the pain of the characters in the story as less severe
Analogamente i soggetti che avevano assunto il farmaco giudicavano il rumore cui erano sottoposti meno fastidioso per loro stessi e anche per gli altri partecipanti anonimi all’esperimento.
Those who had taken the drug rated the noise as less unpleasant, and they also believed it would be less unpleasant for the anonymous participant.
Infine i soggetti che avevano assunto il farmaco tendevano a sottostimare il dolore psicologico delle persone escluse da un gioco cui era stato inizialmente chiesto di partecipare.
La spiegazione della ridotta empatia dopo assunzione di paracetamolo è verosimilmente da ricercare nei neuroni specchio, nel fatto cioè che venendo ridotta dal farmaco l’attivazione delle aree cerebrali deputate alla percezione del dolore, anche la percezione del dolore altrui – che è mediata dalle stesse aree – è ridotta.
Researchers found that, when an individual feels pain, and when they imagine pain in someone else, it causes a response in similar parts of the brain. In other words, the regions of the brain involved in experiencing pain are also involved in imagining the pain of others.
Theoretically, one can imagine that if the same brain areas are used to both experience and imagine pain, a drug reducing real pain might also reduce imagined pain.
Forse questa osservazione, se confermata da altre più estese ricerche, potrebbe anche spiegare, perché solo il dolore ci insegna qualcosa πάθος μάθει. Forse solo quando anche noi siamo vicini alla sofferenza riusciamo ad aprirci alla sofferenza altrui.
Immagine: Pasquale Castigliego