“Ci sono tre maniere di veder le cose” scrive Leopardi in una nota (del 20 gennaio 1820) dello Zibaldone segnalatami da Luigi Tonoli “L’una e la più beata, di quelli per li quali esse hanno anche più spirito che corpo… L’altra e la più comune di quelli per cui le cose hanno corpo senza aver molto spirito… La terza e la sola funesta e miserabile, e tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non hanno né spirito né corpo, ma son tutte vane e senza sostanza”. Con la sua poetica precisione Leopardi argomenta che la prima è “degli uomini di genio e sensibili, ai quali non c’è cosa che non parli all’immaginazione o al cuore, e che trovano da per tutto materia di sublimarsi e di sentire e di vivere”, la seconda degli uomini volgari (volgari sotto il rapporto dell’immaginazione e del sentimento…) che senza essere sublimati da nessuna cosa, trovano però in tutte una realtà, e le considerano quali elle appariscono…Questa è la maniera naturale, e la più durevolmente felice” La terza infine sarebbe quella dei “filosofi e degli uomini per lo più di sentimento che dopo l’esperienza e la lugubre cognizione delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest’ultima senza toccare la seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuoto, e la vanità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla vita per modo che senza esse non è vita”. Si rimane estasiati dalla profondità, precisione, chiarezza delle riflessioni leopardiane e quasi intimiditi da una ricchezza che offre spunti infiniti.
Tra questi mi sembra straordinario quello della possibilità di “movimento” da una maniera all’altra di vedere le cose, il ché apre a una sorta di psicodinamica della visione del mondo, della dialettica ottimismo/pessimismo, per usare termini fin troppo semplificati. Leopardi supera con quest’intuizione dinamica la staticità della tripartizione da lui stesso creata ed impersonata da “uomini di genio e sensibili”, “uomini volgari” e “filosofi”. Se infatti è possibile il passaggio da una maniera all’altra di veder le cose, ciascuno di noi deve avere a disposizione, anche se in proporzioni diverse, tutte e tre le maniere la cui reciproca articolazione determina l’evoluzione della nostra visione del mondo. Anche se pochissimi sono gli uomini di genio, tutti siamo un po’ “uomini..sensibili”, “uomini volgari” e “filosofi” e lo siamo con intensità e sfumature diverse nel tempo. È fin troppo scontato osservare che nell’infanzia, nell’adolescenza e nella gioventù tendiamo a vedere più lo spirito che il corpo delle cose e da quello spirito siamo animati e sospinti in una corsa di volta in volta gioiosa, spericolata, angosciata. Nella maturità siamo più portati a ricercare il corpo delle cose (delle persone, delle idee, dei sentimenti) per come esse ci appaiono, soppesandole con realistica e spesso pusillanime obiettività e dimenticandone fin troppo facilmente lo spirito. Nella vecchiaia infine fatichiamo a scorgere sia lo spirito che il corpo delle cose percependone nell’approssimarsi della morte la loro vanità e l’inanità del tutto. Ma questa stessa dinamica è presente in ognuno di noi in ogni fase della sua vita, a maggior ragione nei momenti critici. Cosa ci porta a superare le delusioni cocenti e le conseguenti fasi di sconforto se non lo spirito (comunque definito e inteso) che sta dietro le cose o meglio di cui noi (illusoriamente) animiamo le cose stesse? E cosa ci aiuta a orientarci e muoverci tra le trappole del quotidiano se non la realistica capacità di vedere le cose come sono? La capacità di non percepire nelle cose né lo spirito né il corpo ma di scorgerne la vanità è quella che ci permette di liberarci dalle nostre illusioni per poter compiere in libertà (?) un altro tratto di strada prima di tornare ad illuderci.
È il nostro emisfero destro, che ci focalizza sugli aspetti negativi delle cose, induce una scarsa auto-stima e una visione cupa del futuro. L’emisfero destro costituisce infatti evoluzionisticamente una sorta di sistema d’allarme del nostro cervello deputato alla percezione delle situazioni di pericolo/minaccia e alla reazione alle stesse. È per così dire abituato all’idea che qualcosa vada storto e avvezzo alle emozioni negative che da tali minacce derivano, paura, ansia, angoscia, stress. Queste ultime colorano inevitabilmente a tinte fosche la nostra visione del mondo. Inoltre le strategie messe in campo hanno un carattere prevalentemente difensivo/passivo: fuga, evitamento, inibizione. Da tutto ciò deriva una sorta di attivazione e stimolo di atteggiamenti di incertezza, insicurezza, paura, e pessimismo
che tendono a ripetersi e a cristallizzarsi.
Il nostro emisfero sinistro è invece preposto al mantenimento di un equilibrio fisiologico e più abituato ad agire, a gestire attivamente le situazioni, sfruttandone le possibilità. Da qui la tendenza ad un atteggiamento più orientato agli aspetti positivi, più ottimistico, correlato ad una maggiore autostima e ad una visione più positiva del futuro.
Certo di fronte alla profondità delle riflessioni leopardiane le pur affascinanti evidenze neurobiologiche rivelano i loro limiti. Ma la passione che anima le sconfortate considerazioni di Leopardi sulla vanità del tutto accende più che mai il desiderio della ricerca, stimola a scoprire lo spirito che anima la vita e la nostra scombinata, fragile, instabile complessità. La sua appassionata e poetica capacità di sentire “da per tutto il nulla e il vuoto, e la vanità delle cure umane” è forse il miglior antidoto ad un ottimismo stupido e il migliore stimolo per lo spirito di innovazione.
Immagine: foto del Lago di Zurigo, a Pfäffikon