Hanno vinto tutti. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e la terapia psicoanalitica breve hanno dimostrato la stessa efficacia a lungo termine (cioè 12 mesi dopo la fine del trattamento) dell’intervento psicologico breve – utilizzato come terapia di riferimento – nella cura della depressione adolescenziale-giovanile. Lo dimostra un accurato studio sperimentale condotto tra il 2010 e il 2013 in 15 centri psichiatrici per l’infanzia e l’adolescenza inglesi su quasi 500 ragazzi e ragazze di età compresa tra gli 11 e i 17 anni e pubblicato su www.thelancet.com/psychiatry del 4 febbraio 2017
“We found no evidence for the superiority of CBT or short-term psychoanalytical therapy compared with a brief psychosocial intervention in maintenance of reduced depression symptoms 12 months after treatment”
Anche se il numero medio delle sedute varia significativamente a seconda dei trattamenti (9 per la terapia cognitivo comportamentale, 6 per il trattamento psicologico breve e 11 per la terapia psicoanalitica breve) il periodo complessivo di trattamento è sostanzialmente analogo, gli effetti collaterali pure e anche i costi non differiscono significativamente.
“Short-term psychoanalytical therapy was as effective as CBT and, together with brief psychosocial intervention, offers additional patient choice for psychological therapy, alongside CBT, for adolescents with moderate to severe depression who are attending routine specialist CAMHS clinics.”
È senz’altro una buona notizia. Innanzitutto per i giovani pazienti e forse anche per noi terapeuti che col tempo, chissà, impareremo magari a non scannarci tra noi per sostenere il primato dell’una o dell’altra terapia (troveremo d’altronde altri motivi, per scannarci). Tutto bene allora? Giustamente l’editorialista del Lancet Psychiatry si chiede perché terapie tanto diverse ottengano lo stesso risultato. E analizzando le diverse possibili cause riflette sull’influenza di fattori comuni a tutte le terapie (alleanza terapeutica, empatia etc) o invece di fattori specifici di ogni terapia ancora non sufficientemente conosciuti e da studiare ulteriormente
“The results of IMPACT raise questions about the effectiveness of all three treatments (combined with SSRIs in 36–41% of adolescents in each treatment group), and suggest that most psychotherapies will be “winners” on the basis of non- specific treatment factors, or alternatively that each treatment might contain distinct specific factors that contribute to recovery.”
Ma mi sembra vi sia un fattore spesso trascurato in questo e tanti altri studi che viene invece illustrato molto bene nel primo capitolo del saggio “Vite non vissute” di Thomas Ogden, splendidamente recensito recentemente sul Sole24ore da Lingiardi. È il terapeuta o meglio lo specifico e unico rapporto che il terapeuta riesce (o no) a creare con il paziente e il paziente con lui. Un rapporto – e qui mi riferisco a rapporti terapeutici di lunga durata – così unico che anche la lingua che lo esprime è tale.
Scrive Ogden:
” con ogni paziente mi riscopro a parlare in modo diverso: con diversi toni di voce, diverse estensioni di suoni, volumi e inflessioni del discorso, una sintassi e una scelta delle parole differenti, e così facendo comunico quello che non potrebbe essere detto in nessun altro modo a nessun altra persona.” E ancora: ” il flusso della conversazione è una creazione che soltanto questo paziente e questo analista (l’analista che divento in quell’analisi) possono portare alla luce in questo modo particolare.” “Quando non creo la psicanalisi con e per un paziente – aggiunge Ogden – l’analisi suona generica impersonale sia per il paziente sia per me”.
Anche se l’analisi e il rapporto analitico hanno caratteristiche indubbiamente peculiari, credo si possa affermare che ciò valga in generale per qualsiasi tipo di terapia duratura e approfondita. Se la terapia non diventa con e per quello specifico paziente rimane generica e impersonale, una compressa bianca, non necessariamente priva di efficacia, magari anche assai utile, ma di serie. Le regole guida per il trattamento della schizofrenia sono – per fortuna- le stesse in tutto il mondo. Ma se io mi rivolgessi con lo stesso tono di voce, gli stessi gesti, la stessa mimica, lo stesso sorriso di benevole empatia al giovane che sente le voci (svalutanti) mentre aiuta i turisti a salire sulla seggiovia e a quello che percepisce voci (minaccianti) quando discute di fisica con i colleghi di lavoro testando nuovi materiali non credo farei loro un bel servizio (e nemmeno credo alle regole guida). Certo i farmaci anti-psicotici fanno il loro effetto – per fortuna – su entrambi. Una terapia che voglia divenire rapporto terapeutico è però un vestito su misura, un taglio unico e irripetibile, che aiuta il paziente a scoprirsi unico e come tale in grado di creare per sé, per la propria guarigione e la propria vita qualcosa di “unicamente suo”, la novità di ognuno
Suggerimento musicale: Verdi, Rigoletto, Questa o quella per me pari sono