“L’origine prima e incondizionata del suicidio rimane un segreto della persona singola” scriveva Jaspers nel lontano 1946 (nel suo saggio “La mia filosofia”). Può sembrare una tesi retrograda, superata, quasi provocatoria ai tempi delle nostre promettenti neuroscienze. Eppure a tutt’oggi, nonostante importanti studi, ricerche e programmi di prevenzione, non disponiamo ancora di elementi tali da consentirci di prevedere con certezza o almeno con ragionevole probabilità se, come e quando il rischio suicidario, teoricamente ipotizzabile, verrà messo in atto. Esami di laboratorio e tecniche di neuro-imaging purtroppo non ci aiutano (ancora) e la valutazione del rischio è tutt’ora affidata al giudizio clinico, all’esperienza, all’intuito del medico/psichiatra, alla capacità di osservazione e al “fiuto” di familiari, amici, colleghi, oltre che alla comprensibilmente limitata disponibilità al dialogo di una persona che nella difficoltà si sente braccata ed impotente. Si aggiunga poi che “mentre prima il suicidio riguardava soprattutto gli over 45, oggi è tra le tre principali cause di morte nella fascia di età compresa tra i 15 e i 44 anni” ed è la seconda causa di morte tra i ragazzi sotto i 20 anni .Un’età che fa rima con l’imprevedibilità, tanto che, un esperto di giovani e di suicidi, Gustavo Pietropolli Charmet giunge ad affermare: “tra i giovani, il fatto di essere adolescenti è il principale fattore di rischio”.
Indubbiamente i disturbi mentali, – “il 75% dei quali si manifesta in maniera sintomatologicamente evidente entro i 25 anni” e il 50% di quelli più gravi addirittura prima dei 14 anni. – costituiscono un indubbio fattore di rischio per il suicidio. “In particolare, la depressione maggiore è la principale categoria nosografica alla quale viene ricondotto oltre il 50% dei suicidi, seguita da schizofrenia, disturbi di personalità, dipendenze da sostanze (soprattutto da alcol), disturbi dell’alimentazione e disturbi mentali organici (Cavanagh et al., 2003)”
Ma lo stesso Jaspers, consapevole del rischio di sbarazzarsi sbrigativamente del suicidio come di un fatto patologico, estraneo alla vita normale, scriveva, nella stessa opera “la via più semplice e comoda sembra sia quella di attenersi per il suicidio all’ipotesi della malattia mentale [….]. Il problema viene così sbrigativamente risolto, essendo collocato al di fuori del mondo normale; ma non è così”.
“Una parte di suicidi, per quanto minima, – (solo il 10%, secondo uno studio di Hawton & Van Heeringen del 2009) dato tuttavia da considerare con cautela – si sottrae comunque all’ interpretazione medico-psichiatrica, tanto da autorizzare a distribuire i comportamenti suicidari lungo uno “spettro” (spettro suicidario), dove ad un estremo si situano condotte suicidarie strettamente legate a disturbi mentali e ad un altro si collocano atti suicidari frutto di scelta consapevole” (il cosiddetto suicidio razionale) in cui sfavorevoli condizioni ambientali, economiche e culturali avrebbero un peso maggiore.
Quale che sia l’interpretazione che del suicidio si voglia dare (sociologica, psichiatrica, psicoanalitica, psicologica), fondamentale è il fatto che il suicidio arriva al termine di un percorso, più o meno lungo o breve, lungo il quale la persona è ancora accessibile agli altri, alle alternative della vita a sé stesso. Accettare il proprio disagio come passeggera occasione di potenziale trasformazione, aprirsi all’aiuto altrui può essere decisivo per superare la crisi ed educare a questo assai importante. In questo senso l’elogio della depressione di Borgna.
La prima idea del suicidio é infatti spesso una semplice fantasia (fantasia suicidaria) assai frequente, comune a tutti noi e non necessariamente patologica. Solo se viene (a lungo) coltivata in solitudine può trasformarsi in ideazione suicidaria (un progetto preciso) e infine in comportamento suicidario (il salto irreversibile nell’azione).
Proprio in virtù di questa, talora prolungata e non affatto inevitabile evoluzione dell’idea suicidaria sono così importanti le misure di prevenzione. Le campagne di prevenzione, la sensibilizzazione al tema in ambito familiare, scolastico, lavorativo, un accesso facilitato alle cure, alle terapie psicologiche e psichiatriche aiutano efficacemente a prevenire e ridurre tali tragedie. Perché, ribadita la libertà di ogni persona di fronte alla propria vita e morte e l’ingiustizia di una condanna morale nei confronti di chi agisce la propria disperazione, il suicidio è davvero una tragedia oltre che per la persona scomparsa anche e forse ancor più per i sopravvissuti. Su coloro che rimangono nel lutto, familiari, amici, ma anche terapeuti, colleghi, pesa il macigno del perché, della colpa, dell’impotenza. Nei familiari e nelle generazioni successive si trasmette uno spettro, che se non affrontato ed adeguatamente elaborato, rischia di incombere in modo inquietante nei momenti più critici.
Il recente suicidio di un mio paziente, che sembrava aver superato la fase più critica, mi ha paralizzato, suscitando dolore e impotenza ma aprendo anche laceranti crepe di dubbio sulle mie doti professionali ed umane. Immagino quanto più sconvolgente sarà stato per la sua famiglia. Inevitabile cercare una spiegazione, pur sapendo che non è possibile trovarla. Difficile non farsi travolgere dai sensi di colpa ed inadeguatezza per non aver visto, capito, agito in tempo, pur sapendo razionalmente che non sono giustificati. Come scaricare la colpa, che si aggira come un silenzioso quanto velenoso serpente tra i sopravvissuti?
Disfarsi del proprio per lo più ingiustificato senso di colpa, liberarsi di una insopportabile impotenza, trovare la spiegazione che è in grado di rendere ragione delle tante lacune, contraddizioni, incertezze che costellano le ore, i giorni, i mesi precedenti il suicidio. Questo il disperato tentativo, per lo più inconsapevole, dei sopravvissuti per poter giustificare a sé stessi di vivere, di sopravvivere alla tragedia.
Ecco allora che la Blaue Whale, la leggenda metropolitana mirabilmente ricostruita da Valigia blu e da Paolo Attivissimo e invece frettolosamente rilanciata dalle Iene, si presta alla perfezione per spiegare un gesto inspiegabile, contenere un’angoscia incontenibile, superare un’impotenza ingestibile, scaricare la colpa su qualcosa/qualcuno cui affibbiare tratti disumani e malvagi. I “curatori” sono i malvagi colpevoli, Internet, i Social Media il pericoloso mezzo di diffusione del contagio, lo Stato che non interviene il potere connivente o incapace. Non ricorda qualcosa? La peste, gli untori, il complotto di manzoniana memoria… Ora naturalmente la minaccia viaggia a ritmo tecnologico. La semplificazione, disinformazione, spettacolarizzazione e emozionalizzazione, la mancanza di riflessione critica e di un adeguato esame di realtà sono però le stesse. Sono i meccanismi primitivi di difesa del nostro cervello, rimasto nelle sue strutture ai tempi della pietra. Di fronte ad un’angoscia minacciosa e ad un’impotenza insopportabile, proiettiamo le nostre parti negative ed ingestibili sui malvagi di turno, passando all’azione contro di loro.
Naturalmente i criminali esistono davvero, quelli che tagliano gole con il coltello, e quelli che rubano il sangue della fiducia e dell’autostima, Internet non è il migliore dei mondi possibili – come potrebbe? – , lo Stato dovrebbe fare di più e meglio per i giovani. Ma cadere nei trabocchetti del nostro inconscio non aiuta nessuno. Se a qualcosa può servire la leggenda metropolitana della balena blu è a farci capire quanto sia (per fortuna) complessa, multiforme, imprevedibile la nostra mente. Che non funziona come una macchina, in cui tirando una leva, fermo il telaio. E neanche come un computer, in cui tutto è programmabile e prevedibile. La nostra psiche, anche se assai più fallibile di un computer, è solo in minima parte cosciente e dunque razionalmente prevedibile . Così come non è particolarmente innovativo utilizzare il digitale per dar sfogo alle emozioni che portiamo con noi dal tempo della pietra non credo sia particolarmente utile incolpare per la nostra fragilità Internet, Social Media, il complotto dei malvagi della rete. Forse possiamo guardare a Internet e ai Social Media come a un infinito specchio che riflette in un prisma inconsueto, spesso inquietante, talora stimolante e innovativo le nostre emozioni per saperle meglio comprendere e, magari, gestire.
Immagine tratta da Wikipedia