E se il medico avesse prescritto il propranolo a Regina Olsen, il grande amore di Kierkegaard che lui lasciò poco dopo essersi fidanzato con lei “perché una voce gli diceva di lasciarla”…. “perché sebbene desiderasse il matrimonio più intimamente di lei come salvezza dal punto di vista umano – ha seguito un cenno dall’alto sentendo di essere votato a un altro scopo”? E se magari l’avessero prescritto anche a lui che, così profondamente segnato da lei, è rimasto suo per il resto della sua vita fino al punto di dire “tutto quello che ho scritto l’ho scritto per lei”.
Mi ponevo queste inutili domande leggendo il bel romanzo su Søren Kierkegaard di Stig Galager “L’uomo dell’istante” (Iperborea Ed.) e parallelamente un articolo scientifico , ripreso anche da diverse testate tra cui il Corriere della Sera, su una nuova cura per il mal d’amore a base di propranololo e poche sedute psicologiche.
Partiamo dallo studio, senz’altro più facile di Kierkegaard e dell’amore. Due ricercatori canadesi Alain Brunet e Michelle Lonergan del Montreal’s Douglas Mental Health University Institute, che si erano precedentemente occupati del disturbo post-traumatico da stress dei veterani di guerra, hanno messo a punto un trattamento per il mal d’amore, più esattamente per coloro che faticano a superare il “trauma” dell’abbandono amoroso. Si sa da tempo che un farmaco Il propranololo (nome commerciale Inderal) usato (nel trattamento dell’ipertensione) per ridurre la pressione e la frequenza cardiaca riduce il coinvolgimento emozionale suscitato dai ricordi spiacevoli così come di quelli legati a condizioni di dipendenza (alcool, droghe etc) tanto che è già stato impiegato con un certo successo nel trattamento del disturbo post traumatico da stress, il disturbo appunto che può insorgere in persone che hanno fatto in guerra, catastrofi naturali o accidentali, esperienze particolarmente traumatiche e sono afflitte, tormentate in modo ossessivo da quei ricordi (flashback). Il farmaco non fa dimenticare, come fantasticato invece nel film ma consente di esporsi in uno stato più rilassato e distaccato ai ricordi “difficili” in modo da poterli rielaborare rendendoli più accettabili. In pratica il soggetto scrive i suoi ricordi e un’ora circa prima della seduta psicologica assume il farmaco in modo che durante la terapia non sia emotivamente troppo disturbato e, con il terapeuta, possa accedere ai propri ricordi, gestirli, rielaborarli, vederli cioè sotto un’altra luce, riordinarli e fissarli (nel processo di riconsolidazione della memoria) e dunque poterli col tempo “digerire”. La prima parte dello studio dei due ricercatori canadesi sembra incoraggiante dal ché molti articoli concludono che anche la seconda parte dello studio che si concluderà a fine anno sarà un successo. Me lo auguro vivamente e una volta dimostrato scientificamente il tutto prescriverò volentieri a chi ne necessita effettivamente il propranololo, che già prescrivo, come tanti altri colleghi, a persone che soffrono della “febbre dei riflettori”. Persino ovvio ricordare che, come tutti i farmaci, il propranololo ha effetti collaterali e uno principale, non sempre desiderato, fa abbassare la pressione sanguigna.
Cosa c’entra Kierkegaard – e l’affascinante romanzo su di lui- con il propranololo? mi si obietterà giustamente. Parto da una frase del romanzo e spero, prima o poi, di arrivarci. Kierkegaard, scrive Stig Dalager, va spesso a trovare la vedova di un suo amico morto precocemente. “Un giorno le dice, come spezzato dal dolore: “non dovete fuggire dalla pena, ma abitarla, così dopo qualche tempo si attenuerà e vi indicherà la strada per andare altrove. Se la fuggirete, vi perseguiterà come un’ombra, diventerà una pietra nel vostro cuore e sarà impossibile da portare”.
Non è forse quello che, non a caso, l’esistenzialista Borgna con gentilezza ci ricorda di fare di fronte alla sofferenza? Abitare la propria pena, conoscere la propria sofferenza vuol dire darle senso e darlo con lei a noi stessi e alla nostra vita. Kierkegaard si è spinto in vero molto più in là dandosi lui stesso la propria pena. “Anche al colmo della gioia e di fronte alla felicità di lei” (Regine), l’ha lasciata, convinto che con la propria malinconia, l’avrebbe resa infelice – anche se lei gli risponde “in ogni caso non puoi sapere se non sarebbe un bene che io rimanessi con te”. Kierkegaard vive dunque la punizione che egli stesso si è inflitto, “inasprita dal fatto che lei l’ha ritenuto un uomo senza cuore, quando in realtà quel cuore sanguinava nel vedere le sue lacrime”.
Ma è una punizione di sé (e dell’amata) o non piuttosto una paura o meglio una punizione che deriva da una paura? In un letto d’Ospedale, vicino alla morte, assistito da un’infermiera tanto premurosa quanto empatica, Kierkegaard riconosce:” più volte mi sono detto che soltanto sul letto di morte avrei osato confessare pienamente l’amore, ma perché? Ora mi rendo conto che avevo paura di essere respinto e di ritrovarmi completamente nudo davanti a un’altra persona. Era una cosa troppo forte per me. Avrei bisogno di un’altra vita, dove avere più coraggio. Tra poco per me ci sarà l’eternità, dove la incontrerò.”
Kierkegaard in tutti i suoi scritti e particolarmente nei suoi Diari – segnalatimi da Luigi Tonoli – anche se sempre animato dall’ideale, è più che mai consapevole delle contraddizioni che ci abitano. “Il sé del singolo, l’io – dice Kierkegaard, anticipando Freud – è come una casa con cantina, piano terra e primo piano. Quel che accade in cantina può essere sconosciuto o soltanto presagito dalla vita del pensiero del piano terra e del primo piano così come può esserci un contrasto tra passione e riflessione o un ingannevole o – peggio -auto ingannevole immaginazione di ciò che sono le fondamenta della casa…” Ma proprio in questi processi e conflitti l’io si costituisce. “L’uomo è costantemente in cammino, nasce e attraverso la scelta entra nell’esistenza. Al contrario del giglio del campo dell’uccello del cielo…. l’uomo ha la possibilità, attraverso questo mutamento di diventare un sé, per poi nell’istante successivo esserne dipendente, catturato dalle sue opposizioni e dai suoi limiti.” “L’esistenza è come il movimento” scrive Kierkegaard che tratteggia i moti della nostra interiorità sottolineando l’unicità dell’individuo, il significato irripetibile che il mio specifico movimento (di ricerca, conquista, abbandono…) assume per me e per nessun altro.
Se il propranololo rimane identico, i suoi effetti sostanzialmente uguali o simili in tutti noi, il mal d’amore che esso può lenire è unico per ognuno di noi e non si lascia catturare dai concetti perché – scrive ancora Kierkegaard- “se l’oggetto compreso si cambia col comprenderlo, la comprensione finisce per essere un malinteso”. È nel vissuto del rapporto con noi stessi e con il terapeuta (e/o chi ne fa le veci, un/a amico/a, un cane, gatto, criceto, libro etc) che possiamo sperimentare la nostra unicità, anche quella della nostra sofferenza amorosa. Non a caso, Søren Kierkegaard colui che si definisce “l’amante infelice”, “una peculiare specie di poeta e pensatore”, dalla stanza dell’Ospedale, ove è divenuto un numero (paziente 207 della stanza 5) lamenta: “i medici non capiscono la mia malattia: è di natura psichica, e loro vogliono trattarmi con metodi clinici ordinari”.