170 miliardi di cellule, un milione di miliardi di connessioni e di reti funzionali, 32 milioni di anni per contare tutte queste connessioni al ritmo di una al secondo: questo in numeri il nostro cervello. Sono numeri che certo non ci fanno capire come funziona ma ci aiutano a capire perché (anche) nella medicina e in particolare nella psichiatria possono essere utili, anzi necessari i big data.
Quelle “quantità di dati – riprendo questa definizione dalla omologa voce tedesca di Wikipedia- che per per esempio è troppo grande, complessa, effimera, o troppo debolmente strutturata per poter essere analizzata con le metodiche manuali e tradizionali di elaborazione dei dati”.
E poiché viviamo appunto nell’epoca dell’iper-informazione, della complessità, e al tempo stesso dell’effimero e del volatile, i big data o meglio la possibilità di una loro velocissima elaborazione computerizzata sembra – per usare termini antidiluviani – la chiave adatta per interpretare il nostro tempo ed il futuro. Perché uno dei tanti vantaggi dei big data è la facoltà predittiva che essi offrono. Per fare un solo esempio rimanendo nel mio campo psichiatrico, si confida proprio in tecnologie digitali traccianti (wearable physiological biosensors) e nei big data (behavioural data) per prevedere l’insorgenza di fasi depressive o maniacali in pazienti bipolari (può sembrare una banalità ma vuol dire risparmiare sofferenze inenarrabili e talvolta la morte a tanti pazienti ed alle loro famiglie).
Ma da dove si ricavano i big data necessari per costruire i modelli matematici che consentono tali previsioni? Dai pazienti naturalmente, che devono però prima essere informati e disponibili a concederli. Gli ospedali universitari svizzeri hanno ad esempio deciso di unirsi e di costituire una bio-banca in cui depositare tutti i dati biologici (sangue, tessuti ed altri materiali biologici) dei pazienti al fine appunto di elaborali, nel presente e nel futuro, per giungere ad una miglior comprensione di tutti i processi patologici e dunque in futuro a migliori cure.
Ma mentre alcuni pazienti sono più che felici di fornire i loro dati in vista di progressi futuri della ricerca e lo dichiarano pubblicamente, come Andrea Jaussi, una paziente affetta da 40 anni da una grave malattia del fegato, ve ne sono altri molto più restii e diffidenti a firmare il formulario che è stato predisposto per il consenso informato. Molto in questi casi dipende non solo dalle informazioni tecniche fornite ai pazienti – spesso di difficile comprensione – ma soprattutto dal rapporto di fiducia che i medici e l’istituzione sanitaria che loro rappresentano, riescono a stabilire con i pazienti. E nell’instaurarsi di tale rapporto giocano a loro volta molti altri fattori di carattere più generale quali il rapporto del cittadino, di ogni cittadino, con le istituzioni in generale, con la scienza, la sua cultura scientifica o antiscientifica, la capacità dello Stato e della società e dell’individuo di aprirsi al futuro, confrontarsi con il cambiamento, le sue incognite e le sue possibilità. Proprio a questi temi è dedicato il convegno Data to change, Human Digital Transformation che si terrà tra breve, il 15 gennaio , alla Camera dei deputati a Roma, organizzato dal Dipartimento Politiche europee, Sandro Gozi e dall’associazione InnovaFiducia, Felicia Pelagalli, mia vicina di blog. Tra i tanti brillanti relatori anche il Prof. Floridi che da tempo, con cristallina chiarezza di argomentazioni e appassionato ed appassionante fervore di sapere, ci aiuta a capire cos’è l’intelligenza artificiale, cosa realisticamente possiamo aspettarci da essa, cosa invece non dobbiamo temere. Perché trovandoci nella stanza buia del futuro dell’AI dovremmo più saggiamente accendere la luce della ragione anziché lasciarci prendere dalle paure di improbabili mostri nascosti.
Con i mostri e l’oscurità ho, per il mio lavoro, quotidianamente a che fare, dovendo partire da un worst case già avvenuto o quantomeno minacciosamente presente. La paura ci fa purtroppo vedere mostri inesistenti ma non per questo meno minacciosi, e, nonostante tutti i nostri appassionati tentativi di controllo, l’inconscio gioca brutti scherzi a tutti noi. Ora, nell’epoca digitale al classico inconscio se n’è aggiunto, come fa notare tra gli altri De Kerckhove un altro, quello digitale. Proprio tutta l’interminabile quantità di informazioni che abbiamo generato e disseminato in internet, nei social media, con i big data biologici o di altro genere va a costituire una massa di dati di dimensioni tali da non poter essere elaborati manualmente da ciascuno di noi e sui quali – salvo poche eccezioni più che altri formali – non abbiamo alcun controllo. Si può forse capire allora che tendiamo a vedere mostri dove non ce ne sono. Pur di non cercarli in noi. Naturalmente siamo noi a proiettare sull’intelligenza artificiale, sul digitale, i big data le paure della nostra fragilità ed insicurezza. Così come i nostri antenati li proiettavano sugli stranieri sconosciuti – e noi sui migranti in arrivo – su altre religioni e altre tradizioni insomma su quell’altro da noi che è in noi e che ci fa sentire così fragili, indifesi, così poco padroni in casa nostra. Accanto alla comprensione razionale dell’utilità e necessità di big data e nuovi orizzonti, dell’ innovazione ed altre sfide, credo non guasti anche un po’ di consapevolezza delle nostre paure. La scienza, insieme con gli straordinari sviluppi delle nostre conoscenze e facoltà, ci fa sentire inevitabilmente anche la nostra infinita rimanente ignoranza e la nostra fragilità se non insignificanza. Dopo aver perso la centralità nell’universo, nella creazione, nella coscienza ci stiamo accorgendo di non essere più padroni nemmeno in quell’infosfera che tanto orgogliosamente avevamo costruito. Non siamo più padroni nemmeno in questa casa digitale. Abbiamo bisogno di un po’ di tempo per farcene una ragione. Ma forse questo è anche un percorso per usare le piattaforme e il digitale, come suggeriva recentemente De Biase, con maggiore consapevolezza.
Immagine: Data Science Essentials Exam (DS-200) tratto da bigsnarf
Suggerimento musicale: J.S.Bach, concerto per clavicembalo No.1 in D Minore BWV 1052 (Jean Rondeau)