Scrivere di nostalgia su un inserto dell’innovazione, rimane un ossimoro non da poco anche in tempi di flat tax scaglionata. A scrivere di Nostalgia, anzi di Nostagia ferita è però Eugenio Borgna, il quale a sua volta cita scrittori, (ma non solo, anche il Freud di Caducità) di prima grandezza da Dostojevski a Rilke, a Celan, a Bernanos che, con approcci e sfumature diverse, hanno vissuto, evocato e fatto rivivere in noi la malinconia. A partire da Leopardi, che nello Zibaldone scrive “ Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ecc…. ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito…
Anzi, osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita non sono altro che una rimembranza della fanciullezza….
E osservate che anche i sogni piacevoli nell’età nostra, sebbene ci dilettano assai più del reale, tuttavia non ci rappresentano più quel bello e quel piacevole indefinito come nell’età prima spessissimo”. Il filo conduttore del breve (pag. 114) leggibilissimo, saggio di Borgna – che si può però anche interpretare come una tappa della sua personalissima autobiografia- è infatti l’evocazione dei ricordi infantili, adolescenziali e giovanili che la malinconia ci fa ritrovare e rivivere. La malinconia cui fa riferimento Borgna non è infatti la retorica celebrazione del passato né l’acido o accidioso rimpianto di ciò che non fu ma il confronto vivo, intenso, talvolta piacevole, talaltra (più spesso) doloroso con la nostra memoria e le nostre passate e presenti “emozioni, le nostre attese e le nostre speranze, perché di queste si nutre senza fine la nostalgia che ci aiuta a ridiscendere lungo i sentieri che portano alla nostra interiorità. La nostalgia ci fa conoscere regioni nascoste e segrete del nostro passato” (pag. 63). Molteplici e sorprendenti sono gli aspetti che Borgna illumina della malinconia, un concetto che si è notevolmente modificato a partire dalla sua origine quando un medico svizzero (Johannes Hofer) lo utilizzò per la prima volta nel 1688 per descrivere la condizione morbosa che insorgeva in giovani soldati svizzeri all’estero che avevano “mal di casa” (in tedesco Heimweh, grecizzato in nostalgia, da nostos ritorno e algos dolore). Posso accennare qui solo ad alcune delle tante facce della malinconia descritte da Borgna, scegliendo tra quelle forse più singolari, tutte peraltro tra loro congiunte dalla fragilità. Borgna cita il romanzo “Un bene al mondo” di Andrea Bajani (splendido mi permetto di aggiungere anche il suo La vita non è in ordine alfabetico)“ c’era un bambino che aveva un dolore da cui non voleva mai separarsi. Se lo portava dappertutto, ci attraversava il paese per andare a scuola tutte le mattine. Quando arrivava in classe, il dolore si accucciava ai suoi piedi e per cinque ore se ne stava senza fiatare. All’intervallo il bambino lo portava con sé in cortile, e all’uscita da scuola attraversava il paese al contrario con il dolore di fianco“ “poi tutte le volte tornavano a casa e il bambino si chiudeva nell’unico posto in cui si sentiva al sicuro che non era un luogo ma un sentimento, ovvero la nostalgia“ “Di quel sentimento il bambino aveva tutte le chiavi. La sua porta era l’unica che il padre e la madre non potevano aprire. Era lì dentro che il passato con tutta la sua amplificata bellezza, accoglieva il bambino. Dentro quel sentimento il bambino passava la maggior parte del tempo“. Non meno suggestivo è quello che Borgna scrive del libro “Le analogie che mano a mano si creano tra la fragilità dell’infanzia e le fragilità delle altre età della vita, la metafora del dolore rappresentato come un cucciolo gentile con cui un bambino è in dialogo e con cui non lo siamo facilmente quando non siamo più bambini. Ma il libro invita anche a seguire il sentiero misterioso che porta all’interiorità” (pagine 48-49). Oltre che i modi anche i luoghi della nostalgia possono essere i più diversi come ci testimonia Etty Hillesum che sentiva nostalgia della propria casa e contemporaneamente delle baracche del campo di concentramento di Westerbork domandandosi “com’è possibile che quel pezzetto di brughiera recintato dal filo spinato, dove si riversava e scorreva tanto dolore umano sia diventato un ricordo quasi dolce? Che il mio spirito non sia diventato più tetro in quel luogo, ma più luminoso e sereno? A Wersterbork ho letto un tratto del nostro tempo che non mi sembra privo di significato. Ho amato tanto la vita quando ero seduta a questa scrivania ed ero circondata da i miei scrittori, dai miei poeti e dei miei fiori. E là tra le baracche popolate da uomini scacciati e perseguitati, ho trovato la conferma di questo amore.” (pag 61-62). Non a caso Borgna dedica il capitolo successivo alle persone “senza patria” costrette a fuggire dalla terra natale, dall’Africa in particolare: “sono persone, che vediamo sugli schermi televisivi incontriamo nelle nostre città, accomunate da inaudite sofferenze quelle del corpo e quelle dell’anima, le une intrecciate alle altre; … come non pensare alle ferite dell’anima che nascano in loro dal dolore della perdita della patria e dalla nostalgia dei familiari che non sempre le accompagnano nella loro emigrazione? Dovremmo essere capaci di accogliere di condividere l’angoscia e la tristezza la sofferenza e la disperazione e di comprendere la solitudine e magari i grumi di nostalgia in esistenze così fragili e così esposte a ogni umiliazione come sono quelle che dall’Africa cercano di giungere fino a noi: alla ricerca di una pace perduta”. (pag 64-65)
Ma non vorrei dare un’immagine buonista del testo di Borgna e non certo perché il buonismo non va di moda attualmente. Il testo di Borgna nella sua apparente fragilità, anzi proprio per il suo costante richiamo alla fragilità dell’infanzia e dell’adolescenza che ancora alberga in noi, è un libro profondamente coraggioso che va contro le banalizzazioni attuali della nostalgia. Quelle che ne fanno “una perdita di tempo, un inutile e accidiosa rêverie, un’ossessiva rimeditazione di cose che sono accadute nel passato e sulle quali non vale la pena di sostare nemmeno un attimo, essendo di ostacolo a vivere una vita liberamente aperta al futuro, all’avvenire. Nel rifiuto della nostalgia si rispecchia l’esaltazione di un tempo che ha solo un presente e un futuro e non ha un passato.“ (pag 87-88)
“ Non provare nostalgia – afferma Borgna – non avere desideri chr ridiano senso al fuggire vertiginoso del tempo e al recupero di valori che erano parte dell’infanzia e dell’adolescenza non è vita o almeno non è vita che si riconosca fino in fondo nei suoi orizzonti di senso“. “La scintilla che dà origine al movimento infinito della nostalgia, dei ricordi dei quali è nutrita – prosegue ancora Borgna – è l’insoddisfazione di quello che avviene nel presente… e il desiderio di allontanarsene, di metterlo tra parentesi alla ricerca di una scialuppa di salvataggio, di una inconscia nostalgia di cura. Sì la nostalgia come cura” (pag 81) perché “ la nostalgia, i ricordi che essa ridesta dalla loro quiete e dal loro silenzio rendono il passato ancora palpitante di vita“ (pag 85). Questo confronto serrato con le esperienze del passato in particolare con quelle vissute nell’infanzia e nell’adolescenza può dare dinamismo al nostro presente e senso al nostro futuro poiché i nostri sia pur remoti vissuti sono “braci non del tutto spente, … capaci invece di riaccendersi, e di inserirsi ancora creativamente nel mondo della vita, nella storia vitale di ciascuno di noi“ aiutando a “liberarci, almeno in parte, dalle incrostazioni che l’avanzare dell’età trascina con sé” (pag 101).
Le parole sofferte di Borgna testimoniano che le “farfalle di seta della nostalgia” – come scrive Paul Celan in Les Adieux – non sono per il maggiore fenomenologo italiano solo una citazione letteraria ma un’esperienza di vita con cui si è profondamente confrontato, accettandone i dolori e le speranze (“talora per sempre ferite”), trasformandole in profonda interiorità. Forse non è un caso che il cammino di Borgna sul filo della nostalgia si chiuda con il racconto manniano di Tonio Kröger e del suo appassionato ma non ricambiato amore per la bionda e gaia Inge, che lo guardava con “i suoi lunghi occhi pieni di gioia e derisione”.
“Così noi viviamo – conclude Borgna nel suo addio – e ogni volta diamo l’addio a qualcosa di noi che la nostalgia misteriosamente ci consente di ritrovare“.