L’informazione (corretta) può correggere i pregiudizi? Me lo chiedevo tornando a riflettere sull’articolo di Alesina “La forza dei numeri” sulla discrepanza tra dati obiettivi e sensazioni soggettive percepite sul più che mai attuale tema dei migranti. Nello studio riportato risulta con grande evidenza che la percezione della situazione migratoria in Italia è drammatica tra la popolazione italiana (sensazione che i migranti siano il 30% della popolazione, al 50% musulmani, per il 40% disoccupati e che il tasso di criminalità in Italia sia per colpa loro cresciuto) mentre i dati parlano tutt’altra lingua (i migranti sono il 10% della popolazione, i musulmani tra loro sono il 30%, i disoccupati il 10%, il tasso di criminalità in Italia è negli ultimi anni calato). L’autore evidenzia tuttavia che l’ultima parte dello studio lascerebbe spazio all’ottimismo poiché gli intervistati, se correttamente informati, sarebbero in grado di correggere la loro percezione alterata:
“Una metà, scelta a caso, degli intervistati – scrive Alesina – è stata informata sul numero esatto e sull’origine degli immigrati nel loro Paese; dopo abbiamo chiesto le loro opinioni sulle leggi sull’immigrazione e sullo stato sociale. Il risultato è stato che se informati correttamente, l’avversione anti immigrati e allo stato sociale per tutti, sparisce. Ovvero gran parte dei sentimenti anti immigrati deriva da percezioni errate”
È sicuramente un dato interessante su cui riflettere. Mi permetto tuttavia di dubitare che le conclusioni tratte possano essere estese dal setting definito dello studio alle condizioni quotidiane della popolazione nelle quali una serie di altri fattori influisce sulla percezione dei dati e sulla loro elaborazione. La pressione dei familiari, le aspettative degli amici, la mancanza di tempo oppure di lavoro, la scarsità di risorse finanziarie, la fila all’ufficio, i problemi di rete ma anche e ancor più le paure e i desideri inconsci che ci portiamo dietro alterano la nostra capacità di percezione corretta e riducono il nostro stesso desiderio di averne una obiettiva. La correttezza di percezione dei dati e di giudizio degli stessi richiede infatti tempo e fatica, l’azionamento del nostro sistema di pensiero lento (Kahnemann), la disponibilità a mettere in discussione i nostri già sperimentati e comodi schemi cognitivi e soprattutto emotivi.
Viviamo inoltre non solo in Italia ma nel mondo in generale in una condizione di alta tensione emotiva, allarmismo, polarizzazione del dibattito in parte provocata ad arte da alcune parti politiche, in parte suscitata dall’inconscio personale e collettivo dei partecipanti al dibattito, in parte ancora perpetuata da meccanismi di rinforzo di tipo circolo vizioso per cui le notizie rimbombano da mass media a social media allo scambio di battute al supermercato senza approfondimento. In tale contesto di esasperata emotività e di perenne instabilità emozionale, la percezione è spesso totalmente in preda alle emozioni (sistema limbico). Il confronto obiettivo con la notizia è fortemente ostacolato per non dire impedito. Anziché riflettere ci si schiera, dividendosi in amici e nemici. Gli spazi culturali e sociali tradizionali dall’edicola al circolo letterario alla pagine culturali si trasformano da occasione libera di confronto, creatività, innovazione in trincee belligeranti. Ciò vale, forse a maggior ragione ma per fortuna non sempre!, per i social media nei quali gli stati emotivi vengono trasmessi con ancora maggiore velocità ed intensità (viralità). Non si tratta naturalmente di condannare moralisticamente per l’ennesima volta i social media ma piuttosto di individuare nuovi e più adeguati concetti per comprendere (e gestire) meglio gli stati affettivi digitali che si creano sulle piattaforme. La Döveling (Alpen-Adria-Universität Klagenfurt, Austria) propone ad esempio di intenderli come specifici stati culturali (e non solo psicologici) con proprie caratteristiche
“We understand these as relational, contextual, globally emergent spaces in the digital environment where affective flows construct atmospheres of emotional and cultural belonging by way of emotional resonance and alignment. Approaching emotion as a cultural practice, in terms of affect, as something people do instead of have, we discuss how digital affect culture(s) traverse the digital terrains and construct pockets of culture-specific communities of affective practice.”
Non è una discussione accademica. Se non riusciamo a comprendere e a gestire meglio l’enorme componente emozionale che fa parte integrante della comunicazione onlife non riusciremo neanche lontanamente a vincere la guerra delle fake news. Il vero problema non è smontarne i contenuti, nella maggior parte dei casi di per sé inverosimile ma aver ragione della enorme spinta emozionale che li veicola.
Se io mi limitassi a comunicare al mio paziente che ha paura di volare che gli aerei sono il mezzo di trasporto più sicuro oppure al paziente paranoico che non ha nessun motivo di sentirsi perseguitato perché le sue sono idee irrazionali credo che non verrei a buon diritto preso molto sul serio né dai pazienti né dai colleghi.
Capisco che il mio costante riferimento ai pazienti possa essere considerato unilaterale, parziale, ma chi di noi da vicino (e ancor di più a quella strana distanza cui stiamo sui social) è normale? Questa è stata appunto la grande scoperta freudiana, la constatazione che l’inconscio modifica, altera, influenza costantemente, e senza che noi ce ne accorgiamo, la nostra percezione, sensibilità, il nostro comportamento.
Correggere il contenuto delle fake news è certamente doveroso ma non sufficiente. Rendersi conto delle emozioni che le veicolano è decisivo. Credo che per farlo dobbiamo ammettere prima la nostra limitatezza. Da soli non ce la facciamo. Così come nel rapporto terapeutico per accettare di vederci in maniera diversa e più veritiera abbiamo bisogno di una persona di fiducia che sta in rapporto con noi, per mettere in discussione i nostri pregiudizi e accedere a nuove più scomode verità su tanti temi emotivamente coinvolgenti abbiamo bisogno di essere in un rapporto di fiducia con una/più persona/e che ci apra a nuove fonti, ci traghetti a più approfondite analisi e ricerche. Non gli/le chiediamo la verità, né ci aspettiamo che lui/lei l’abbia. Gli/le siamo grati per nuove vie di accesso, nuove prospettive, nuovi punti di vista. Può essere il caso di un/una giornalista che ha guadagnato la nostra fiducia per la sua obiettività, un utente di social media che condivide con sincerità la sua ricerca, un gruppo che si interroga, un’istituzione che mette a disposizione degli altri le sue conoscenze ed esperienze. Le modalità ce le dirà il futuro ma credo che il tempo dell’intersoggettività (duale o meglio plurale) sia decisamente arrivato anche per l’informazione