Parlereste in modo diverso di politica con uno sconosciuto che ha opinioni diverse dalle vostre e che abita vicino a voi? Questa è la sfida su cui si basa “Germania parla” il progetto del portale di Zeit Online che per la prima volta nel 2017 ha offerto ai cittadini tedeschi la possibilità di dialoghi ravvicinati tra sconosciuti (geograficamente) vicini su temi molto controversi. Migliaia di tedeschi hanno accettato la sfida, hanno risposto con un sì o un no alle domande poste e hanno riempito un profilo personale. Un programma computerizzato ha individuato la coppia di dialoganti più azzeccata e più vicina. Il risultato è stato l’esatto opposto di quello che spesso accade nei dibattiti televisivi tra opinionisti discordanti conosciuti. Anziché assistere alla solita ripetizione di slogan vuoti e allo scambio di rancori personali, i dialoghi di “Germania parla” hanno prodotto nella maggior parte dei casi dialoghi inusuali, approfonditi, spesso spiritosi e la possibilità di conoscere persone che ci abitano accanto ma che vivono in un altro mondo. Insomma un modo efficace, interessante e non troppo faticoso per uscire dalle „bolle“ in cui tendiamo a rinchiuderci nell’onlife. Il progetto, che si inscrive nel più ampio mycountrytalks , ha avuto tanto successo da vincere il Grimme Online Award e da venir replicato anche quest’anno (con oltre 12.000 iscritti per il 23 settembre) e da essere stato esportato anche in Svizzera e presto anche in Austria, Norvegia e Danimarca. In realtà il primo esperimento al di fuori dei confini tedeschi è stato realizzato in Italia con L’Italia si parla nel giugno scorso a Bologna al Festival delle Idee di La Repubblica
In fin dei conti l’idea è semplice, l’uovo di Colombo come spesso si dice a posteriori: un po’ di dialogo socratico mescolato con l’innovazione digitale che consente coppie di dialoganti più eterogenee e geograficamente vicine di quelle del mercato ateniese. Proprio in questa semplicità risiede la sua genialità. Un metodo filosofico antico rivisitato alla luce del digitale congiunto alla motivazione al dialogo personale che nasce paradossalmente dalla delusione e dallo sconforto dell’uniformante e appiattente omogeneità. Se lo spasmodico desiderio del gruppo condiviso – sia esso familiare, partitico, social, nazionale, etnico o altro – in cui trovare nostalgica protezione dall’inquietante futuro multiculturale sta ormai drammaticamente segnando il nostro presente, una possibile via di uscita è la ricerca consapevole di un dialogo rispettoso nell’eterogeneità. Si potrebbe anche sostenere che è la versione aggiornata, digitale della migliore tradizione del caffè, un’istituzione della diversità, “un’arca di Noè – come scrive Magris – dove c’è posto, senza precedenze né esclusioni, per tutti, per ogni coppia che cerchi rifugio quando fuori piove forte e anche per gli spaiati”.
Perché allora non ripetere ed allagare l’esperimento de “L’Italia si parla”? E perché non ampliarla ai social, a Twitter in particolare che di questi caffè eterogenei ed accoglienti avrebbe un gran bisogno se si considera il livore che lo percorre.
Basta il dialogo allora? Non vi è altrettanto o forse ancora maggior bisogno di silenzio? Me lo chiedevo guardando e soprattutto ascoltando lo straordinario e per lo più silenzioso discorso di Emma Gonzales alla March for our Lives, la marcia dei ragazzi americani stanchi delle ripetute stragi nelle loro scuole dopo le quali nulla vien fatto per ridurre l’impiego delle armi. Il discorso di Emma è straordinariamente potente proprio perché fatto in gran parte di silenzio, un silenzio che lei mantiene per 6 minuti e 20 secondi perché questo è il tempo che ha impiegato l’omicida che ha ucciso i 17 compagni della sua scuola in Florida. Non è facile reggere ad un silenzio così lungo e carico di tensione soprattutto in un discorso pubblico. Ripetuti sono i tentativi di interromperlo con grida e slogan. Eppure Emma resiste, più forte di ogni cedimento all’impulso di rabbia e consolazione. È il silenzio che ci costringe ad ascoltare le nostre intollerabili emozioni, i nostri insopportabili sentimenti, a non coprirli con parole di circostanza, a non liquidarli con grida di rabbia, gesti di sdegno, battiti di mani, slogan di rassicurazione. È il silenzio che rende possibile l’ascolto. Non solo acustico ma prima ancora della testa e del cuore. È nel silenzio partecipe dell’altro che posso ascoltarmi, nell’astinenza “empatica” del terapeuta che posso percepirmi e riflettere. Dal silenzio può nascere un altro stile di conversazione un altro livello di intesa. I social, almeno quelli attuali, non prevedono silenzi (silenziare la conversazione in Twitter ha altro significato) dobbiamo però concederceli noi, se vogliamo tornare a dialogare. Non si tratta di idealizzare lo gran silenzio de‘ cavalieri antichi e disprezzare il chiacchiericcio social (come se quello televisivo fosse meglio). Piuttosto di essere consapevoli del bagaglio analogico, umanistico che in qualità di migranti digitali portiamo con noi e di integrarlo con l‘innovazione digitale. Proprio come il dialogo socratico può trovare forme innovative attraverso la mediazione di un algoritmo anche il silenzio, inteso come rispettoso ascolto, può arricchire un dialogo social che rischia di inaridirsi e/o intossicarsi di livore. Non a caso la tossicità aggressiva viene addotta, a torto o ragione, come una delle principali cause di abbandono dei social. Cambiare le regole del gioco nel corso di una rivoluzione quale è quella digitale (Floridi) non può avvenire però armoniosamente. Comporta, come ammonisce anche Floridi inevitabilmente uno scontro, un conflitto tra assoggettamento acritico alla novità in quanto tale e fedeltà a sé stessi. Un conflitto che va combattuto criticamente con lo stesso coraggio dimostrato da Emma, capace col suo silenzio di rimanere fedele a sé stessa e di aiutare gli altri a farlo.
Immagine: tratta da geh-dichfrei.com
Suggerimento musicale: Arvo Pärt, Silentium https://youtu.be/XHJ5qleyzyk