Ispirato dalla partecipata manifestazione di ieri contro il razzismo, People – Prima le persone – torno, per l‘ennesima volta, sul tema delle migrazioni. Mi si dirà che è una mia fissa. Il ché probabilmente è vero. Proprio per questo ho cercato di capirne il perché – prendendola, invero, un po’ alla lontana.
Mio nonno era originario di Manfredonia, in Puglia ma per mancanza di lavoro nei suoi paraggi, partecipò e vinse il concorso per una piccola condotta medica in provincia di Brescia. Vi si trasferì agli inizi del 900 con moglie e figli piccoli facendo fino alla sua prematura scomparsa il medico condotto (cioè l’internista, il chirurgo, il dentista, l’ostetrico e tutto quel poco che ai tempi la medicina offriva) in due piccoli comuni agricoli della bassa bresciana. Fece cioè quella che in termine tecnico si chiama una migrazione interna, ancor oggi la più diffusa forma di migrazione. Provo ad immaginare come sarà stato per lui, abituato a respirare il profumo caldo del mare al porto di Manfredonia trovarsi d’un tratto immerso nella nebbia fredda della bassa. Come sarà stato difficile per lui capire i suoi poveri pazienti dall’italiano stentato e dal dialetto così diverso dal suo. Come sarà stato faticoso per quei poveri contadini, che viaggiavano solo per andare a morire in guerra, aprirsi ad un medico che veniva dal Sud e non conosceva le loro abitudini, la loro mentalità. Mio padre, pure medico, è nato e cresciuto in provincia di Brescia, ne ha assorbito la mentalità di sobria efficienza e il dialetto zeppo di ü e di ö, che somministrava con calda empatia ancor prima di ogni cura, o meglio come avvio di transfert e di cura. Anche lui ha fatto da internista, chirurgo, ortopedico, dentista e ginecologo per mezzo secolo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale quando andava d’inverno talvolta a visitare i suoi pazienti in stalla! l’unico luogo caldo allora per i più poveri. A tutte le ore del giorno e della notte lui era il “Sior Dutur”per tutti, paesani e cittadini, braccianti e possidenti, malcapitati e zingari di passaggio che si ritrovavano talvolta sotto il cuscino, insieme alla pastiglia anche qualche lira. Io, trasferitomi in Svizzera tedesca per motivi affettivi, mi sono trovato a fare lo psichiatra in una lingua straniera che mi suonava inizialmente ancora più incomprensibile del dialetto bresciano per mio nonno. Talmente incomprensibile da chiedere in una delle mie prime notti di guardia ad un alcolista che mi aveva detto di essere “obdachlos“ dove si trovasse quel paese, obdachlos appunto che in tedesco significa però „senza tetto“, „senza fissa dimora“. Quante volte mi sono sentito escluso dalle conversazioni semplicemente perché i miei interlocutori parlavano dialetto – come in Svizzera é ovunque d‘abitudine – e non il tedesco. Quante volte mi sono, anche a sproposito, sentito discriminato semplicemente perché la mia nazionalità veniva accolta con un sorriso che io interpretavo di supponenza o addirittura di derisione. E non potevo neppure esprimere compiutamente la mia rabbia perché mi mancavano le parole. Eppure il mio lavoro veniva riconosciuto ed apprezzato. Ma la nazionalità continuava a pesare. Quando ho lavorato in Canton Ticino (96-98) mi sono sentito dire, come se fosse la cosa più naturale del mondo, che per le assunzioni „venivano prima gli svizzeri, poi quelli che avevano sposato uno/a svizzero/a, poi gli altri,“ naturalmente con relative graduatorie. A poco mi serviva, anzi mi metteva ancora più amarezza e rabbia il fatto che al momento del rinnovo del permesso di soggiorno il sorriso stentato del funzionario di turno diventasse (un poco) più aperto dopo che aveva letto la mia professione. Se non mi sono ancora deciso a diventare anche cittadino svizzero (doppia nazionalità) è forse anche per questo. Nel frattempo il mio tedesco, su cui pure proietto tutte le insicurezze che mi porto dietro, è divenuto più che accettabile. Chi viene nel mio studio mi sceglie consapevolmente, con la mia nazionalità, la mia chimerica mentalità, la mia lingua dal marcato accento italiano. Qualche volta faccio ora più fatica io a mantenere l’astinenza con gli impazienti pazienti italiani che non con i generalmente posati svizzeri. In ogni caso mi piace molto e mi stimola avere pazienti di svariate nazioni. La sofferenza è certo la stessa ma il modo di viverla, esprimerla ed interpretarla varia passando da una cultura all‘altra. Prima però vengono sempre le persone, anzi la persona con la sua storia, le sue esperienze, i suoi vissuti che rendono quella storia unica e irripetibile. Ecco, la mia storia, quella conosciuta e sconosciuta della mia famiglia, paterna e materna, mi ha portato qui, ora, e chissà dove domani. Nel mio viaggio ho sperimentato fortune e vantaggi che la maggior dei miei simili nemmeno conosce. Sono stato solo impercettibilmente sfiorato dal vento del razzismo che soffia invece impetuoso su milioni di persone costringendole a rimanere nelle loro inumane prigioni, togliendo loro ogni dignità, gettandole nella disperazione o addirittura conducendole alla morte. La brezza del razzismo soffia certo anche in me, l‘ho riconosciuta e la riconosco tante volte mentre mi scaglio verso gli svizzeri „freddi e insensibili“ e gli „italiani impazienti“, guardo con sospetto stranieri con molte mogli, metto istintivamente la mano sul portafoglio quando passa una „zingara“. E io ho la fortuna di svolgere un lavoro socialmente riconosciuto e apprezzato in una delle nazioni più ricche e sviluppate del mondo. Che vento di razzismo sarebbe autorizzato a percepire allora chi si sente direttamente minacciato dai migranti? L‘impulso di vedere nell‘altro l‘untore di manzoniana memoria, il diverso, l‘ebreo, il migrante minaccioso e pericoloso è insito in noi. La civiltà si basa appunto – argomentava Freud nel suo disagio della civiltà – sul superamento di questi impulsi – non sul loro sdoganamento, come sembra avvenire oggi. L‘educazione al superamento collettivo di tali pulsioni è il compito della politica. A provare (e provocare) paura siam capaci da soli.
Ciascuno di noi ha la propria storia di sofferenza e gioia, capacità e limiti e desidera, credo, prima di tutto il resto essere riconosciuto per quello che è, crede, cerca o spera di essere. Non per la sua nazionalità, il colore della sua pelle, la zolla del mondo in cui ha avuto la fortuna o la sfortuna di nascere. „Migrare è umano“ che sia una necessità o un desiderio, un sogno o un incubo. Migrare è un diritto all‘innovazione che l‘uomo riconosce a sé stesso da quando è sceso dagli alberi ed ha cominciato a camminare su due piedi. Vogliamo privarcene proprio adesso che siamo in grado di far camminare i robot? Non so dove risiederà mio figlio, che ha cominciato medicina lo scorso anno. Ovunque si sposterà, spero incontri gente che lo accoglie prima come una persona.
Suggerimento musicale: Verdi, I Lombardi alla prima crociata, coro „Oh Signore dal tetto natio“