“Lavoro con le parole e con il silenzio. I non detti. Lavoro con la vergogna, i segreti, i rimpianti. Lavoro con l’assenza, i ricordi scomparsi, e quelli che riappaiono evocati da un nome, un’immagine, un profumo. Lavoro con i dolori di ieri e quelli di oggi. Le confidenze.”
Così dice di sé Jérôme, il logopedista che svolge la sua attività in una casa di riposo con persone anziane che stanno perdendo, oltre alla salute e all’autonomia, anche la loro lingua. Jèrôme lavora con grande dedizione ma è anche molto sincero. Quando Michka, un’intelligente signora anziana da poco arrivata alla casa di riposo – per aver perso la propria sicurezza nella sua casa di pareti e di parole – gli domanda se si aggiusterà “tutto quello che se ne va, che scarpa via, così, a tutta birra”, Jèrôme riconosce: “possiamo rallentare le cose, ma non possiamo fermarle”. Nel breve quanto intenso romanzo Le Gratitudini di Delphine de Vigan la protagonista, accanto a Michka, Jèrôme e Marie, una sorta di figlia adottiva di Michka, è la perdita: della salute, dei ricordi, della sicurezza, delle parole, della vita. Un declino che è ineluttabile destino e può essere, appunto, solo rallentato. “Invecchiare è imparare a perdere. Incassare, ogni settimana o quasi, un nuovo deficit, una nuova alterazione, un nuovo danno”… “perdere ciò che ti è stato dato, ciò che hai guadagnato, ciò che hai meritato, ciò per cui hai combattuto e che pensavi di tenerti per sempre”. Eppure proprio nel processo di perdita, anzi nella faticosa, dolorosa eppure ferma, quasi accanita resistenza al processo di perdita, si disvela la vita. Quella passata, segnata da una generosità – di azioni e affetti – ricevuta e donata, ma anche quella presente nella quale la gratitudine impronta affetti e rapporti. Michka, pur impaurita dai suoi sempre più gravi deficit e dai suoi incubi, si apre al faticoso rapporto di collaborazione con Jérôme, Marie, pur tra incertezze e difficoltà, ad una nuova vita, Jérôme si avvia a ripensare il suo doloroso passato. Nulla avviene tuttavia senza fatica e senza sforzo in questo romanzo fatto di parole cesellate quanto fragili, di silenzi ancora più intensi delle parole stesse. Vale per l’autrice quanto lei fa dire a Jérôme: è lei che lavora “con le parole e con il silenzio. I non detti. … con la vergogna, i segreti, i rimpianti…. con l’assenza, i ricordi scomparsi, e quelli che riappaiono evocati da un nome, un’immagine, un profumo…. con i dolori di ieri e quelli di oggi.” Perché, come dice ancora Jérôme, “toglie il fiato … constatare il persistere dei dolori dell’infanzia. Un marchio a fuoco incandescente, nonostante gli anni. Che non si cancella”. Lavoro anch’io con i dolori di ieri e quelli di oggi e anche a me toglie spesso il fiato constatare quanto faticoso e doloroso sia allentare la morsa dei dolori dell’infanzia, anche se per fortuna non impossibile. Aprirsi a un rapporto terapeutico fiducioso è sforzo immane per chi è segnato fin dall’infanzia dal dolore e dall’abuso e lo è anche per chi sta perdendo tutto. Eppure è anche la via d’uscita. Il rapporto non elimina la perdita né la ripara. Come dice ancora Jérôme “A volte bisogna assumersi il vuoto lasciato dalla perdita.” Ma se il terapeuta, l’altro, nonostante la perdita, continua ad esserci, a stare seduto accanto a chi la perdita la subisce e la vive, un rapporto di fiducia diventa pensabile, la gratitudine possibile.
“Mentre sto per chiudere la porta mi chiama.
-Jérôme?
È raro che mi chiami per nome. Per lo più le sfugge.
– Sì?
– Gratis”
Immagine tratta da @IrenaBuzarewicz
suggerimento musicale di @marcoganassin Ivano Fossati