30 settembre 1659. È la data di arrivo di Robinson Crusoe sull’isola deserta ove ha fatto riparo dopo il naufragio della nave nel quale sono morti tutti gli altri membri del suo equipaggio. Robinson incide la data del suo arrivo su una grande croce che ha costruito a questo scopo appena approdato sull’isola. A partire da quel momento inciderà ogni giorno una tacca sulla croce, così da non perdere la coscienza del tempo che passa. Annota inoltre in un diario tutte le esperienze che vive sull’isola. Lo farà per 28 anni (12 dei quali trascorsi in piena solitudine) trascorsi i quali potrà tornare alla civiltà.
Credo che nessuno di noi abbia segnato la data del 20 febbraio 2020 sul proprio calendario, pur avendo quel giorno appreso che il primo caso, autoctono, di COVID-19 era stato isolato in Italia. Nel corso di quest’anno, lunghissimo e brevissimo insieme, ciascuno di noi ha però tenuto un diario, a proprio modo. C’è stato chi ha dovuto tenere il proprio diario, intubato, in un letto di terapia intensiva, assistito dalla dedizione senza mezzi di protezione di medici e infermieri, e se l’è portato con sé nell’ultimo naufragio. Chi l’ha compitato a casa davanti alla TV, al PC, al telefono mentre attendeva impaziente notizie dei propri cari ricoverati o di familiari in zone gravate dal pericolo. Chi ancora è stato o è alle prese con un diario fatto di cifre che non tornano, angosce che si alternano a speranze per lo stipendio, il posto di lavoro, la ditta. Per molte, troppe donne il diario è stato quello delle violenze cui sono state sottoposte dai loro partner ancora più di prima durante il lockdown. Per tanti ragazzi e ragazze il racconto è diventato quello digitale della didattica a distanza, resa possibile più che dall’organizzazione del nostro sistema scolastico, dalla dedizione di tanti/e docenti. È mancato e manca a quei/quelle ragazzi/e però il diario della spontaneità e della comunità tanto che anche tra i teenager, così come tra gli adulti, aumenta il disagio psicologico e crescono le richieste di supporto psicologico e psichiatrico
Ciascuno di noi ha scritto e continua a scrivere, sulla base delle proprie esperienze, dei propri vissuti e della propria storia di vita precedente, un diario diverso e singolare, unico. Tutti però, chi alla prima e chi alla seconda ondata, chi per motivi fisici, finanziari, psicologici o altro ancora, siamo naufragati, come Robinson Crusoe. A differenza di lui però siamo paradossalmente naufragati stando nei nostri consueti luoghi di residenza e di lavoro e contemporaneamente, tutti insieme, l’intera popolazione mondiale, anche se ciascuno a proprio modo. Tutti abbiamo perso la “normalità” cui eravamo precedentemente abituati, così come il senso di sicurezza e di prevedibilità che di quella normalità facevano parte. Quella che ci è dapprima apparsa una lunga pausa nella canzone della vita, come l’ha definita Floridi, ha assunto sempre più i contorni di una perdita del ritmo cui eravamo abituati, della melodia che scandiva il nostro quotidiano conferendogli (un) senso. Anche noi come Robinson siamo rimasti increduli, smarriti e disorientati di fronte al naufragio, temendo, ciascuno a modo proprio, di non poter far più ritorno alla idealizzata normalità del prima. A differenza di Robinson però noi siamo naufragati tutti insieme e, soprattutto, dopo essere già approdati sul continente digitale. Noi abbiamo a disposizione, non solo la biosfera, come lui e i nostri nonni/nonne colpiti dall’epidemia della “spagnola”, ma anche l’infosfera (Floridi). Proprio grazie al digitale, pur nel nostro isolamento individuale e collettivo, abbiamo potuto continuare a vederci, sentirci, comunicare, lavorare, apprendere, insegnare, progredire, prendere decisioni a livello nazionale, internazionale, mondiale. Eppure, mai come ora, il digitale anche se estremamente utile, prezioso, funzionale ed efficace, ci appare, proprio in quanto “luogo di puro pensiero” e “realtà che va oltre il modo dei nostri corpi” (cit. Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspace) non solo defatigante – tanto che si parla già di Zoom-fatigue – ma anche unidimensionale e dunque umanamente carente. Ci manca la fisicità dell’abbraccio, quasi fossimo “ombre vane”, come Dante e Casella che in quanto anime possono dialogare e commuoversi ma non stringere i loro corpi in un abbraccio
“Io vidi una di lor trarresi avante per abbracciarmi, con sì grande affetto, che mosse me a far lo somigliante. Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto! tre volte dietro a lei le mani avvinsi, e tante mi tornai con esse al petto.”
Siamo dunque, come Robinson, naufraghi ma per così dire domestici, collettivi e digitali. Come lui si sentiva orfano della civiltà, noi ci sentiamo orfani della normalità e della sicurezza in un sistema di cui comprendiamo, mai come ora, la complessità. Come lui vedeva inizialmente sull’isola solo pietra e sabbia, noi vediamo solo pericoli e incertezze. Eppure Robinson, come scrive Saraceno nel suo La fine dell’intrattenimento, è il prototipo di quella resilienza di cui oggi si lamenta l’inflazione ma senza la quale non c’è superamento della crisi e ancor meno del trauma. Superata la fase in cui si sente vittima passiva di un destino crudele, Robinson prende attivamente in mano la propria vita, e scopre, di pari passo con le proprie risorse nascoste, i mezzi a disposizione sull’isola. Dove prima aveva vista solo aridità, vede utensili, alberi, animali e infine scopre anche uomini. Da un nuovo senso alla propria sopravvivenza per tornare dal naufragio alla vita.
Ingenti risorse vengono messe a disposizione dell’Italia dall’Unione Europea, un nuovo governo di grande consenso politico si è costituito. Riforme profonde a lungo rinviate in molti importanti settori della vita pubblica sono attese. La trasformazione che desideriamo per il nostro paese all’insegna di una maggior efficienza, ricchezza e giustizia sociale non può però essere magica, basata cioè sull’illusione di un cambiamento prodotto dalla bacchetta magica di un leader onnipotente. Ma nemmeno la trasformazione individuale che deve accompagnarla può essere tale. Ogni trasformazione vera costa riflessione, impegno, sacrificio. Solo così possiamo tornare dal naufragio alla vita, dandole un nuovo senso. Dobbiamo faticosamente accettare che la normalità di prima è irrimediabilmente perduta e dev’essere sostituita da un nuovo progetto di comunità e di persona. È un lutto, personale e collettivo, ma è anche l’occasione di una ricostruzione.
Immagine: La zattera della medusa, di Théodore Géricault