Durante una delle tante pandemie del passato, quella di peste nera del 1348 un gruppo di giovani, sette donne e tre uomini, per dieci giorni si intrattengono in un’amena villa nei dintorni di Firenze per sfuggire appunto alla peste che imperversava in città e a turno si raccontano delle novelle. È, come tutti sappiamo, l’ambientazione del Decamerone di Boccaccio. In una delle sue più dolenti novelle accade che “piacendosi [Lisabetta e Lorenzo] l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi [presa fiducia] , fecero di quello che più desiderava ciascuno. E in questo continuando e avendo insieme assai di buon tempo e di piacere” vennero scoperti dai “tre giovani fratelli [di lei], mercatanti e assai ricchi” i quali, senza nulla dar a vedere, si prendono il tempo necessario per “torre dal viso”…”questa vergogna”. Arrivato il momento a loro propizio “i fratelli di Lisabetta uccidon l’amante di lei: egli apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato; ella occultamente dissotterra la testa e mettela in un testo [vaso] di bassilico, e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso”.
Rileggendo a quasi 700 anni di distanza questa novella, tanto tragica quanto essenziale ed incisiva, è difficile trattenere le lacrime ma anche la rabbia. Da lungo tempo abbiamo sconfitto la peste, che allora mieteva vittime ben più numerose dell’attuale COVID-19, presto, speriamo, sconfiggeremo anche il virus con un vaccino, ma siamo ancora lontani dall’aver vinto il paternalismo e le sue conseguenze politiche, sociali, culturali sulla società, in particolare italiana. È tragico dover constatare che ancora oggi uomini si arrogano il diritto di decidere per le loro partner, sorelle, figlie; donne vengono uccise perché vogliono vivere la loro vita e i feminicidi sono aumentati in fase di lockdown. Gli impressionanti dati di queste violenze, delle richieste di aiuto e degli interventi messi in atto dai centri anti violenza sono stati riassunti ancora una volta in un Thread qualche giorno fa da @LaMerlettaia e sono raccolti insieme a molti altri dati Istat in un articolo del sole 24 ore
Ma in questi giorni si discute anche del persistere del paternalismo, della sua influenza culturale, delle sue logiche di potere in quella che dovrebbe essere l’élite della nostra società, governo, gruppi dirigenti di partiti, intellettuali. Ne offre un’analisi pungente quanto stringente Giulia Blasi che da un lato ribadisce chiaramente che “le donne non sono “altro” … [e] gli uomini non sono il punto di neutralità dell’umano” e dall’altra coglie “ la fragilità di un’intera categoria di intellettuali fra i cinquanta e i settant’anni, maschi, bianchi, eterosessuali, la classe dominante da secoli, se non direttamente millenni. Dominante, e incapace di mettersi in discussione a livello culturale, prima ancora che personale.” Per fortuna mentre questa incapacità di mettersi in discussione alimenta dibattiti piuttosto stantii e dalle scarse ricadute pratiche, la realtà, o almeno una parte di essa è già cambiata, anche in Italia, ove pure i cambiamenti avvengono al rallentatore. Generazioni molto più giovani di donne e uomini, formate anche da sempre più frequenti esperienze di studio e di lavoro all’estero, esigono e si riconoscono parità e rispetto, senza aspettare concessioni dall’alto. Non è poi un caso che diverse giovani e brave giornaliste siano state chiamate a svolgere il ruolo di portavoce di svariati ministri, premier incluso, dell’attuale governo. Mi sembra, nel bene e nel male, una fotografia fedele della realtà di genere italiana al potere. Il potere è ancora nelle mani di uomini, non proprio giovani, le loro voci sono quelle di giovani donne. Come se gli uomini di potere si rendessero conto che per comunicare e farsi sentire e capire hanno bisogno delle donne che divengono pertanto le voci femminili di un potere maschile. Avere voce, propria, è anche la battaglia che si sta combattendo, come al solito in ritardo in Italia, perché i panel non rimangano manel (e i sostantivi vengano declinati sempre anche al femminile). Dovrebbe essere spontanea iniziativa di noi maschi, o almeno regola abituale sulla base della voce della coscienza. Visti i risultati è lecito dubitare oltre che delle nostre voci (maschili) anche delle nostre coscienze. Dare voce alle donne vittima di violenza dovrebbe essere fatto scontato negli articoli che ne parlano, fin tanto che purtroppo continueranno ad esserci vittime. Avviene però spesso che il punto di vista del colpevole o di parenti, familiari, amici venga anteposto a quello della vittima. Non si tratta di creare un linguaggio astratto di retorica condanna morale in cui il feminicidio viene descritto secondo uno stampo seriale. Il titolo “Ennesimo caso dì feminicidio” è un’offesa alla vittima, alla contabilità ma anche alla nostra intelligenza, che dovrebbe sentire l’esigenza di capire che cosa ha portato un uomo ad uccidere la donna con la quale ha, generalmente, vissuto per anni. Un titolo simile sembra suggerire invece l’indifferenza, tipicamente maschile, verso ciò che accade e meccanicamente si ripete come il difetto di un prodotto, una frana, un cambio di stagione. Eliminare “raptus di gelosia” è doveroso, ma sembra venir spesso sostituito da un altro stereotipo solo più alla moda, raptus di patriarcato. Ogni violenza sulla donna si sviluppa certo nel contesto della cultura patriarcale che ciascuno di noi dovrebbe combattere e sconfiggere. Ma la storia che ha portato alla violenza è individuale e unica. Se vogliamo aiutare le donne e gli uomini a riconoscere i segni premonitori delle violenze perché le donne possano proteggersi e gli uomini farsi aiutare prima di commetterle, dobbiamo raccontare da giornalisti e rivivere da lettori queste storie nella loro specificità e peculiarità, non accatastarle le une accanto alle altre come inevitabili bare. Ripetere che l’amore non uccide, fornire di anno in anno dati aggiornati sul fenomeno è certo doveroso ma è troppo poco per creare una coscienza individuale e collettiva capace di eliminare il fenomeno. Non basta scandire come mantra slogan e banalità per creare una nuova mentalità. È facile e comodo per la maggior parte di noi maschi sottolineare la distanza che ci separerebbe da coloro che infliggono violenza alle donne ma siamo sicuri che, posti nelle stesse condizioni sociali, culturali e familiari non faremmo lo stesso?. Una lunga e dolorosa storia precede l’episodio di violenza sia dal lato della donna, che ha spesso già subito violenza in forme diverse dal padre o altri membri della sua famiglia, sia dal lato dell’uomo che l’ha spesso vista impiegare come unica strategia di fronte ad ogni ostacolo. Ricostruire la propria storia, cercare di comprenderla è quello che possiamo fare per non ripeterla, a maggior ragione se si tratta di una storia di violenza, che è l’antitesi della comprensione. La comprensione psicologica degli impulsi che si agitano in noi è d’altro canto il miglior antidoto contro la violenza. Eppure accedere alle cure psicologiche è in Italia ancora un privilegio che non tutti possono permettersi. Perché allora non partire da lì? Dall’esigenza di capire la storia che ha portato alla violenza come se fosse la nostra storia, dal desiderio di comprendere cosa si agita dentro di noi perché é da lì che nasce la violenza. Che storia ci racconterebbe Lisabetta?
Immagine: Hunt, William Holman — Isabella and the Pot of Basil — 1867