Una nota rivista psichiatrica, Lancet Psychiatry ha dedicato nel giro di tre mesi due editoriali alla psichiatria digitale che sembra essere la chiave per fornire nel futuro una migliore salute mentale su larga scala. Muovendo dagli esempi dei virologi/vaccinologi e dei genetisti che hanno tratto lo spunto da straordinarie innovazioni tecnologiche per raggiungere grandi risultati clinici, gli editorialisti auspicano che anche gli psichiatri sviluppino presto tutto il potenziale della psichiatria digitale per promuovere e migliorare la salute mentale ovunque. È un auspicio più che condivisibile. Se non fosse che il concetto stesso di psichiatria digitale è, come riconosce la rivista stessa, tutt‘altro che chiaro ed evidente, essendo invece un conglomerato ancora confuso „a catch-all for several different technologies and approaches, including mental health apps, machine learning algorithms, and ecological momentary assessment.“
Non mi scandalizzerei per questo. Il tema della città ideale ha animato gran parte del dibattito culturale dell‘Umanesimo e del Rinascimento italiano ma di città ideali ne sono state costruite ben poche e nessuna si è ovviamente rivelata tale. Credo che il tema della psichiatria digitale debba parimenti sospingere il dibattito psichiatrico verso nuovi orizzonti, anche se oggi non siamo verosimilmente ancora in grado di scorgerli chiaramente. A patto di non fare del digitale un’ontologia, l’unica possibile realtà esistente, come spiega mirabilmente Floridi in Against Digital Ontology E a condizione di fare chiarezza sul concetto valigia di psichiatria digitale, spacchettandolo e definendone esattamente parti e funzioni. Provo allora a tirar fuori dalla valigia della psichiatria digitale i contenuti principali e a definirli, scusandomi fin d‘ora per l‘incompletezza.
Quello che viene probabilmente dapprima alla mente parlando di psichiatria digitale è probabilmente la parte meno propriamente digitale, la terapia online, che esiste da decenni ma che la pandemia ha reso quanto mai attuale. È interessante che esimi colleghi e intere scuole precedentemente in guerra con il barbaro nemico digitale si siano d’incanto convertiti/e alla terapia online in tempo di pandemia. Quanto in questa conversione abbiano influito nobili ideali di continuità terapeutica e didattica e quanto la vil pecunia lascio a più dettagliati studi, che d’altro canto praticamente tutte le scuole hanno avviato a posteriori per documentare la validità scientifica di quanto già da loro attuato. Al di là delle polemiche, la terapia online offre indubbi vantaggi di annientamento delle distanze (per pazienti in regioni periferiche, con difficoltà di spostamento, disabilità, frequentemente in viaggio, all’estero) e comporta indubbie limitazioni sensoriali (tatto, visione complessiva etc) di cui tener conto. Ormai sono numerosi gli studi che dimostrano comunque un’efficacia della psicoterapia online paragonabile a quella della psicoterapia tradizionale in presenza. Ciò vale a maggior ragione per la supervisione online. È prevedibile una crescita esponenziale della terapia online soprattutto ma non solo nei paesi in via di sviluppo.
Un secondo breve capitolo riguarda la digitalizzazione degli atti, anche psichiatrici e psicologici, la parte psicologica-psichiatrica del cosiddetto fascicolo sanitario elettronico, già obbligatorio in altri paesi. Al riguardo non mi sembra vi sia molto d‘aggiungere se non che va finalmente compiuto anche in Italia per garantire completezza e comunicabilità di documentazione. Deve valere però il principio che gli atti sono miei e li gestisco io. Se infatti è assolutamente fondamentale che la mia allergia sia subito nota al medico che mi visita per la prima volta in una situazione d’emergenza lontano da casa, sarei tutt‘altro che felice se quanto io ho confidato al mio psicoterapeuta venisse messo a disposizione del personale sanitario di un ospedale senza il mio consenso.
I contenuti più rilevanti della psichiatria digitale sono però quelli che hanno a che fare con il machine learning algorythms e con i Big data. Si va dalla pillola digitale che consente di controllare l’assunzione della terapia, alla possibilità di fare diagnosi di schizofrenia attraverso l’analisi computerizzata del linguaggio dei pazienti, di diagnosticare la depressione anche sulla base dell’analisi delle foto di Instagram, al supporto digitale per aiutare i pazienti affetti da demenza a gestire meglio il quotidiano, ai programmi digitalizzati di terapia cognitivo comportamentale per i disturbi d’ansia la depressione l’insonnia e così via. Altrettanto promettenti sono i risultati di tecniche che ricercano Markers biologici per fare diagnosi (ad es. di depressione, demenza etc). Dall‘impiego incrociato di markers biologici e tecniche di machine learning applicate agli elaborati del paziente credo sia lecito attendersi nei prossimi anni aiuti concreti alla diagnosi, che pur resta, a mio modesto avviso clinica (che deriva dal greco κλίνη, letto ciò fatta al letto, metaforicamente al fianco del malato)
Altrettanto interessante l’impiego dei big data, pur con le limitazioni di un campo come quello psicologico-psichiatrico in cui la singolarità è cifra essenziale. Trarre conclusioni cliniche utili dai dati è inoltre tutt’altro che facile, come rilevano gli stessi editorialisti di Lancet Psychiatry „A recent survey of suicide risk prediction tools across NHS mental health trusts shows clearly how new tools can fall flat clinically and is a warning sign for the hurdles digital psychiatry will likely face in real-world settings.“
E la psicoterapia in senso stretto? Magari ne riparliamo in un‘altra occasione con qualche studio in più. Per il momento mi limito ad osservare che in una fase in cui si parla, spesso con eccessiva enfasi, di medicina personalizzata, la psicoterapia è nata proprio come la medicina più personalizzata di tutte. Freud ha infatti per la prima volta messo da parte gli strumenti medici tra sé e il paziente e si è affidato alle stesse parole del paziente per comprenderlo. La parola è così diventata la cura. È la prima Talking Therapy. Non poco per i suoi tempi. Da non dimenticare nemmeno nei nostri.
Immagine: la città ideale, attribuita a Leon Battista Alberti