Balint. Chi era costui? Quando lo chiedo ai nuovi assistenti psichiatri/alle nuove assistenti psichiatre cui faccio supervisione, in forma appunto di gruppo Balint, ricevo spesso in risposta sorrisi imbarazzati. Le assistenti sono più sincere, mi dicono generalmente che non ne hanno mai sentito parlare o solo molto vagamente. I colleghi maschi chinano il capi e i silenzi si prolungano. Racconto allora che Michael Balint è stato uno psicanalista per certi versi geniale. Ungherese, figlio di un medico di base, è stato allievo del grande psicoanalista Ferenczi e, come lui, ha dedicato grande attenzione alle percezioni e sensazioni del paziente e alla relazione terapeutica, non solo tra analista ed analizzando, ma anche tra medico di base e paziente. In questa sua osservazione e studio del rapporto medico paziente Balint ha scoperto che il medico è la medicina e e che dunque qualsiasi tipo di terapia anche farmacologica passa attraverso il rapporto tra terapeuta e paziente. Se il medico non riesce a sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda del paziente anche la terapia farmacologica generalmente non fa un grande effetto (effetto placebo/nocebo). Balint ha inoltre osservato che in alcuni casi la sintonizzazione tra medico e paziente può essere talmente intensa da creare un vero e proprio fenomeno di flash, un lampo, una scintilla – avrebbe detto Platone – di comprensione reciproca che può trasformare il rapporto terapeutico. Attraverso quei flash passa qualcosa tra paziente e terapeuta che fa sviluppare e progredire la terapia. Descritti poi da Stern come Now Moments, quei momenti di sintonia emozionale e cognitiva sono divenuti il fulcro delle attuali psicoterapie ad indirizzo analitico e più in generale di tutte le psicoterapie. Tanto che la terapia basata sulla mentalizzazione (MBT) fa di tutto perché questi momenti di mentalizzazione tra paziente e terapeuta durino il più a lungo possibile e vengano ritrovati il più rapidamente possibile.
Ma Balint deve forse la sua transitoria e ormai per lo più tramontata celebrità ai gruppi Balint, quei gruppi di ricerca che lui ha inaugurato dapprima con assistenti sociali e poi con medici e che hanno preso, in suo onore, il suo nome. Sono nati dal desiderio di Balint di offrire le conoscenze della psicoanalisi anche ad altre categorie professionali e sono stati estesi con successo anche a tutte le professioni socio-sanitarie ma anche a docenti ed avvocati. Uno dei partecipanti al gruppo (composto generalmente da una decina di persone) espone un caso o meglio un rapporto terapeutico nel quale incontra qualche difficoltà. Gli altri partecipanti fanno loro il caso ed espongono le loro fantasie, emozioni, riflessioni. Non si tratta di trovare l’errore o di dare il consiglio giusto. Viene richiesto piuttosto di immedesimarsi nel paziente, nel terapeuta, nella loro relazione e di esprimere in piena libertà di associazioni emotive e cognitive – come in una seduta d’analisi – quello che suscita quanto si è ascoltato e vissuto. Nello svolgimento del gruppo le fantasie, emozioni e riflessioni, dapprima vaghe e multiformi, come la luce riflessa da un prisma, acquistano sempre maggiore consistenza, formano una trama, vengono elaborate razionalmente, divengono stimolo per il terapeuta che ha presentato il caso illuminando di luci molteplici le zone d’ombra del suo rapporto con il paziente. Ma cosa succede quando i partecipanti sono molti di più di 10, molte decine? Balint trovandosi in quella situazione in una delle prime settimane psicosomatiche svizzere a Sils in Engadina, non si è perso d’animo e ha creato la tecnica del cosiddetto grande gruppo. Il gruppo “piccolo” (costituito appunto da 8 terapeuti, un conduttore e un co-conduttore) viene cioè attorniato da un gruppo grande di partecipanti (tutti gli altri) che dapprima hanno solo il compito di osservare ed ascoltare cosa avviene nel gruppo piccolo. A un certo punto anche i partecipanti del gruppo grande vengono coinvolti e sono chiamati a portare le loro osservazioni, riflessioni i loro vissuti, che sono a loro volta di stimolo per la prosecuzione del processo. La tradizione avviata da Balint alla fine degli anni 60 a Sils in Engadina è stata portata avanti con svizzera regolarità ed oggi si apre la 61 settimana Balint di Sils. Nel frattempo i tempi sono un po’ cambiati, ora viviamo all’onlife. Forse i gruppi Balint sono superati, nuove terapie avanzano… Però a pensarci bene il gruppo Balint è un onlife ante-litteram.
Anche nel gruppo Balint i partecipanti sono in una condizione ibrida, sono cioè in una concreta e ben definita realtà offline, ad esempio in una sala più o meno accogliente, nel loro corpo più o meno riposato, in un lucido ed attento – si spera – stato di coscienza, etc. Contemporaneamente i partecipanti sono anche online, in sintonia, come diceva Balint con il paziente e con il gruppo, duque in un rapporto più o meno fluente e riuscito con l’inconscio di una persona assente e con quello di molte persone presenti, raccolte appunto in un gruppo piccolo e grande. Forse consiste proprio in questo il fascino del gruppo Balint, nel cercare di essere contemporaneamente in sintonia con sé stessi, con un’altra persona che non conosciamo ma di cui un terapeuta ci racconta e ancora con tutte le persone che sono vicino a noi e che cercano di fare lo stesso. È in questo difficile e affascinante essere il relazione con chi è presente e chi è assente che consiste la peculiarità del gruppo Balint. Ma questo è anche quello che ci richiede il nostro presente digitale.
suggerimento musicale: Maya Delilah, Harvest Moon,