Molly Russell ha posto fine alla sua vita a quattordici anni, nel 2017. Ora il coroner inglese Andrew Walker, al termine del processo avviato dai genitori della ragazza contro Facebook e Instagram dopo aver scoperto nel suo profilo migliaia di immagini sulla depressione, l’autolesionismo e il suicidio, è arrivato alla seguente conclusione: «È probabile che il materiale visto da Molly, già affetta da una malattia depressiva e vulnerabile a causa della sua età, abbia influenzato la sua salute mentale in modo negativo e abbia contribuito alla sua morte in modo non secondario».
Dagli atti risulta infatti che “Molly Russell ha messo like, ha salvato o ha condiviso ben 2.100 post che parlavano di depressione, suicidio o autolesionismo su Instagram. Ha trascorso solo 12 giorni (su 6 mesi) senza interagire con quel tipo di contenuti dannosi sulla piattaforma di proprietà di Meta”. La parziale responsabilità delle piattaforme, consisterebbe, secondo il padre della ragazza, proprio nella totale libertà degli algoritmi di continuare a suggerire all’utente pagine e post coerenti con le sue ricerche e i suoi interessi, senza fare differenze tra contenuti. Se si clicca su suicidio compare un avviso, in cui a seconda delle nazioni, si può trovare l’avvertenza «I post con parole o tag che cerchi spesso incoraggiano comportamenti che possono causare dolore o condurre anche alla morte. Se stai vivendo una situazione difficile, saremmo lieti di aiutarti» e/o un numero di telefono cui rivolgersi (in Italia Telefono Azzurro per i minori
Tel: 19696 Telefono Amico Tel: 199 284 284 ) Instagram dà anche la possibilità di ricevere assistenza con un pulsante. Gli avvisi si possono, come tutti sappiamo, saltare e immagini e post sono accessibili a tutti. Tra questi ve ne sarebbero stati alcuni nel caso di Molly Russel nei quali, afferma ancora il coroner, “il contenuto era particolarmente realistico, impressionante, e ritraeva il suicidio come una inevitabile conseguenza di una condizione da cui non è possibile uscire”. Puntuali come un orologio svizzero e con lo stesso grado di empatia sono anche giunte le dichiarazioni di Meta, Pinterest e Instagram di rimpianto, rammarico etc.
Nello stesso giorno in cui i principali quotidiani di tutto il mondo davano notizia di questa sentenza innovativa e per certi versi storica, il New York Times riportava però anche un approfondito articolo sulle ricerche in corso in diverse università americane per prevenire il suicidio grazie proprio grazie ai dati ricavabili dagli smartphone e dai social network che essi veicolano. L’idea di base, spiega nell’articolo Matthew K. Nock, psicologo di Harvard, uno dei migliori ricercatori sul tema, è quella di congiungere tutte le tecnologie possibili e i dati che ne derivano in una sorta di sistema di allerta precoce che potrebbe essere utilizzato quando un paziente a rischio viene dimesso dall’ospedale. Ad esempio “il sensore segnala che il sonno di una paziente è disturbato, lei segnala un umore basso sui questionari e il GPS mostra che non sta uscendo di casa. Ma un accelerometro sul suo telefono mostra che si sta muovendo molto, suggerendo agitazione. L’algoritmo contrassegna il paziente. Viene emesso un segnale acustico su una lavagna. E, proprio al momento giusto, un medico si mette in contatto con una telefonata o un messaggio.” Ancora tutto da verificare e testare, le speranze per il momento si alternato alle delusioni
Algorithms have proven more accurate than traditional methods, which, according to a 2017 review of published research, had not improved in 50 years and were only slightly better than chance at predicting an outcome. These methods are already used in some clinical settings. Since 2017, the Department of Veterans Affairs has used an algorithm to flag the 0.1 percent of veterans at the highest risk for suicide, a few thousand patients in a population of six million.
This approach has yielded some success. A study published last year in JAMA Network Open found that veterans enrolled in REACH VET, a program for at-risk patients, were 5 percent less likely to have a documented suicide attempt, and less likely to be admitted to a psychiatric facility or visit the emergency room. But the study found no significant change in the rate of suicide.
La direzione intrapresa sembra comunque promettente e, come riferisce una delle partecipanti al programma ideato dal Dr Nock, i questionari da compilare sono invadenti ma anche confortanti perché trasmettono la sensazione di non essere ignorati, di avere qualcuno cui interessa sapere come ci sentiamo. Inoltre aggiunge la Signora Cruz: “Penso che sia quasi più facile dire la verità a un computer”.
Ecco la tecnologia è tutto questo, e molto altro ancora, come fa capire Jennifer Egan nel suo nuovo libro “The Candy House“. La tecnologia “è il fenomeno che cambia il mondo che definisce un’era e connette estranei. È anche, sebbene indossi l’elegante veste dell’idealismo, un grande affare.”
Come scrive Stefano Epifani nel suo “Sostenibilità digitale”, “ non ha senso limitarsi alla domanda se la tecnologia faccia bene o male. La tecnologia non è buona o cattiva, ma ciò non vuol dire che non produca effetti nell’una o nell’altra direzione. È fondamentale quindi interrogarsi sugli impatti negativi per minimizzarli, ma concentrarsi su quelli positivi per valorizzarli.”