Dopo che un diciassettenne ha accoltellato a morte prima il fratello di 12 anni (con un numero infinito di coltellate) e poi madre e padre, sui mass-media e social media si è scatenata la gara a ricercare la motivazione dell’orrore. Come d’abitudine in queste circostanze, gli psichiatri, psicologi e psicoterapeuti più noti hanno detto la loro, che poi è inevitabilmente sempre la stessa. In mancanza di informazioni più precise non è possibile ricostruire la causa, sicuramente ci saranno stati però dei precedenti, dei segni premonitori che non sono stati individuati come avrebbero dovuto esserlo, (da chi non è dato saperlo). Segue la constatazione che i/le giovani sono sempre più isolati/e (constatazione indubitabile, anche se invero non troppo originale).
Le colpe dei social
Inevitabile chiusa con la condanna dei social, che, sostiene un mio illustre collega, “ peggiorano la situazione di un milione di volte. Chi dice di no e in malafede“ Mentre però “ negli Stati Uniti ogni mese esce un libro sull’impatto della tecnologia digitale sui nostri figli”, noi “non facciamo niente perché ci sono le lobby che portano a cena un senatore e sono a posto” (io e il Prof Chittaro invero un libro sulle illusioni dei social media l’abbiamo scritto qui in Italia, senza essere invitati a cena da nessuno, ma chi lo sa, magari davanti a un’eccellenza culinaria avremmo cambiato idea)
Dar voce alle emozioni
C’è stato però anche chi, come Matteo Lancini, è andato in una direzione assai meno scontata, superando la tentazione di fare di un caso del genere il trionfo dell’orrore e della psicopatologia, ed evitando di ricercare facili capri espiatori e segni premonitori ex post. Lancini ha ricollegato il caso al disagio giovanile nel suo complesso, dunque a quella crisi della salute mentale di cui stiamo parlando qui ormai da quattro settimane. “L’unica risposta, che spesso non piace agli adulti, ma che possiamo trarre da queste vicende – scrive Lancini – è che non dobbiamo mai smettere di dare voce alle emozioni anche più disturbanti che hanno i ragazzi.” «Dobbiamo trasformare questa terribile vicenda – aggiunge – in un’occasione di sviluppo, crescita e possibilità di mettere in parola. Quando si consente a un adolescente di verbalizzare il proprio stato d’animo non vuol dire che gli si dà ragione solo perché lo si ascolta. Vuol dire gli si dà legittimità di parola e di pensiero, qualunque esso sia. Ed è meglio qualsiasi parola, anche la più disturbante, che un gesto violento dal quale non si torna più indietro.”
Dar la parola agli/alle adolescenti
Dar la parola agli adolescenti, che peraltro così facilmente non la vogliono prendere, sembra anche a me l’unico modo per capire qualcosa di questa crisi della loro salute mentale. Dar loro la parola vuol dire anche sottrarsi alle parole scontate e ripetitive degli esperti, divenute ormai frasi fatte. Ma significa anche, come sottolineava una madre e docente intervenuta al dibattito qui aperto,
liberare i/le giovani “dalla gabbia identitaria legata al disturbo (reale o presunto), che talvolta deriva da una superficiale informazione tramite social o rete. Sento spesso gli alunni definirsi con il verbo essere: “io sono DSA, io sono ADHD, io sono bipolare, etc…”. mentre credo che sostituire “essere” con “avere” potrebbe aiutarli ad uscire dalla gabbia per esplorare l’universo dentro e fuori di loro.”
Ascolto attento e osservazione sensibile
Se infatti da una parte è comprensibile il desiderio di giungere ad una diagnosi che si immagina risolutiva e foriera di adeguata terapia e conseguente guarigione, è pericoloso farne un feticcio. Il rischio è appunto quello di non vedere il disagio dell’adolescente nella sua persona. Sono l’ascolto attento e l’osservazione sensibile ed appassionata a rilevare le spie del malessere e della sofferenza.“ In questo, osserva un’altra lettrice, che si era sentita sola nel suo malessere giovanile, “bisogna esserci. Tutti. Genitori, terapeuti, tessuto sociale” per “dare forma e forza “ al cambiamento di attenzione verso ragazzi/e. Non manca chi ha sottolineato nel dibattito la necessità di “restringere l’espsizione a smartphone e social media, evitandone l’uso durante l’orario scolastico e nelke due ore prima del sonno” e di “assicurare min 7 ore di sonno al giorno e due sessioni di attivita’ fisica”.
Psicologo/a scolastico/a
Negli scambi su X relativi allo stesso tema è stata sottolineata l’importanza dello psicologo scolastico per compiere un primo lavoro di scrematura tra i disagi che possono essere accolti in quella sede e quelli che abbisognano invece di una terapia specifica da svolgere in altra sede (ma chi paga?). Una collega osserva che “ il coinvolgimento di genitori e insegnanti (es. con gruppi di discussione/Balint) potrebbe aprire a psichiatri/psicoterapeuti un terreno di conoscenze e riflessioni importanti.” “I cambiamenti sociali, culturali così rapidi a cui siamo tutti sottoposti – prosegue – forse rendono insufficienti le “tradizionali”chiavi di lettura…”.
Alieni
La giornalista Barbara Carfagna in una puntata di Codice con parola chiave alieni, e un relativo articolo comparso proprio sul sole 24 ore di ieri, si domanda se sia il digitale ad allontanare i giovani dalle generazioni precedenti, rendendoli alieni.
Io, nel mio quotidiano lavoro con tanti/e giovani, mi domando cosa li e ci aliena dalle loro emozioni.