«Sul promontorio piangeva, seduto, là dove sempre, con lacrime, gemiti e pene straziandosi il cuore, e al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime» (Odissea V 82-84). Così, stanco, provato dalla guerra e dal lungo viaggio di ritorno – che lui stesso allunga rimanendo per anni ospite di Calipso sulla remota isola di Ogigia – e al tempo stesso preda della nostalgia per sua moglie Penelope, il figlio Telemaco, che a stento conosce, la sua isola natale, Itaca, ci appare per la prima volta Ulisse, descritto da Omero. Un uomo certo dal multiforme ingegno ma anche segnato, come tutti noi, dalla sofferenza e dall‘ambivalenza di una vita dolce e amara ad un tempo.
Il naufragio di Ulisse
Chi abbia avuto la fortuna di leggere il meraviglioso saggio, “Il naufragio di Ulisse” di Mauro Bonazzi, il cui sottotitolo non a caso recita “Un viaggio nella nostra crisi”, sa però che l’immagine di Ulisse cambierà nel corso della storia umana fino a divenire il simbolo dell’appassionata sete di conoscenza umana e del desiderio di felicità e di moralità che vi si affianca, anche se le leggi della conoscenza e quelle del bene e del male sembrano seguire rotte diverse, incrociandosi in una condizione più di conflitto che di armonia.
Ulisse eroe della conoscenza
Cicerone, rifacendosi al suo professore di filosofia, Antioco di Ascalona, interpreta l’atteggiamento di Ulisse verso le Sirene come un desiderio di conoscenza: “le Sirene promettono il sapere, e non era strano che per una persona desiderosa di sapienza esso fosse piú caro della patria”. Dante farà poi di Ulisse l’eroe stesso della conoscenza: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. (XXVI, 118-120) Il desiderio di Ulisse di varcare le colonne d’Ercole (“il folle volo”) alla ricerca proprio di quel sapere si conclude però, nella Divina Commedia, tragicamente.
Il folle volo
Scrive Bonazzi: “La conoscenza è il dono piú alto, e il desiderio di conoscere l’unica cosa che veramente conta. Di questo Ulisse è il simbolo. Ma questa sapienza, senza il conforto divino, non è piú sapienza; è nulla. … A essere condannato (in Dante), insomma, non è il desiderio di conoscere, bensí la pretesa di poterlo realizzare fidando soltanto nelle proprie forze, l’illusione che la nostra intelligenza possa tutto. Questo desiderio e questa pretesa, privi dell’appoggio divino, non sono la salvezza ma la condanna: una «follia».
Il controcanto di Dante
Il viaggio di Dante – prosegue Bonazzi – è una sorta di controcanto del viaggio di Ulisse. … anche il viaggio di Dante… è un viaggio di conoscenza: l’obiettivo è in fondo lo stesso dell’Etica nicomachea – vedere e comprendere la realtà come la vedrebbe e la comprenderebbe Dio, in tutta la sua bellezza e necessità. …Ma nella Divina Commedia non sono Ulisse, e neppure Aristotele, quelli che riescono ad approdare alla meta tanto agognata. Chi riesce è Dante: il viaggio notturno di Ulisse, un viaggio di morte, diventa un viaggio di luce solo nel caso di Dante, che su quella montagna potrà finalmente salire, continuando cosí il suo cammino di salvezza verso la felicità. Perché Dante non viaggia da solo; perché il suo viaggio è parte di un disegno divino.”
Nietzsche e l’oceano infinito
Bonazzi ci fa poi incontrare un altro grande viaggiatore, Nietzsche, che proprio da Genova, “sotto la protezione dei (suoi) patroni locali, Colombo, Paganini e Mazzini”, contempla il mare e scrive: “Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: …Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di piú spaventevole dell’infinito.”(La gaia scienza, § 124).
Dio è morto
Il protagonista del viaggio è un folle che, come Dante, cerca Dio, ma nel frattempo Dio è morto: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! …
Dove si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?” (La gaia scienza § 125). È stata la rivoluzione scientifica ad aver ucciso Dio. “Scoprendo le leggi che regolano l’esistenza dell’universo, dimostrando che la realtà si regge su un ordine interno e regolare, ma non finalistico o provvidente (il disegno intelligente), (gli) scienziati – chiosa Bonazzi – hanno di fatto reso superflua l’ipotesi di Dio”.
Odisseo homo faber
Ma c’è anche chi, come Theodor Adorno, nell’omonimo capitolo della sua Dialettica dell’Illuminismo dedicato proprio ad Odisseo, ne fa il moderno Homo Faber, l’incarnazione dello spirito della moderna società borghese. L’itinerario da Troia ad Itaca è la metafora della dialettica stessa dell’illuminismo. Ulisse deve sconfiggere le figure mitologiche incontrate durante il viaggio per prendere coscienza di sé ed emanciparsi attraverso la ragione. Adorno vede però in Ulisse, sostiene Bonazzi, il “potere di una ragione che doveva emancipare gli esseri umani e li ha resi ancora piú schiavi, asservendoli alle logiche del profitto e della produzione, incapace di indicare fini che meritino di essere perseguiti o valori da condividere.”
L’Ulisse digitale
Siamo ormai alla fasi attuali del viaggio ovvero del naufragio. Ulisse è diventato digitale, solca le onde di un sempre più tenebroso WEB, creato dall’uomo stesso, affronta i molti pericoli che vi si celano, non più quelli primordiali di una natura violenta e matrigna ma quelli dell’oligopolio e del capitalismo digitale.
Come già annotavo nel mio “Inconscio digitale e sostenibilità” , non ci vuole l’astuzia di Ulisse per applicare la stessa dialettica illuministica, illustrata da Adorno, alla nostra attuale società digitale e per vedere dunque in Ulisse, l’homo digitalis che cerca una nuova consapevolezza ed emancipazione dall’inconscio digitale alla volta di una nuova Itaca.
Il rischio del capovolgimento nel suo opposto
“Non diversamente da quanto osservato da Adorno circa la nascente società borghese di massa, anche nella società digitale il rischio del fallimento deriva dal capovolgimento nel suo opposto. Internet nato per far accedere tutti alla conoscenza rischia di diffondere in pari misura odio e disinformazione, le piattaforme, originariamente tese a favorire la comunicazione, si trovano a sfruttare un immenso potere di conoscenze e dati che sono in realtà nostri, le big five condizionano pesantemente il potere politico, all’ oligarchia dei mass media si è ora sostituita quella ancora più spietata dei social media. Il canto delle Sirene è ora quello, visuale, dei social media. Il silenzio delle Sirene – che Kafka riteneva ancora più pericoloso del loro canto – è forse la sorda e sordida collusione della cleptocrazia digitale con il potere politico. Anche la rivoluzione digitale è già fallita come la dialettica dell’ Illuminismo capovolgendosi nel suo contrario?
AI come Dio
Bonazzi nelle sue considerazioni conclusive sostiene che “rimane incrollabile dentro di noi la convinzione – l’illusione, sarebbe meglio dire con Nietzsche – che i nostri problemi etici ed esistenziali possano essere risolti in modo oggettivo.” È forse qui che si innesta la nostra tendenza a fare dell’AI, come già scrivevo , il nuovo Dio, quello che avevamo dato per morto, a proiettarvi una coscienza che non ha.
L’illusione del ricatto
In un recente articolo su Wired, Stefano Epifani smonta con precisione chirurgica l’entusiasmo – e il timore – suscitato da un episodio in cui Claude 4, modello linguistico di Anthropic, avrebbe ricattato un ricercatore. Come scrive Epifani, non c’è alcun ricatto, né alcuna intenzionalità. Solo un sofisticato meccanismo predittivo che riproduce un comportamento coerente con il contesto testuale, senza alcuna esperienza soggettiva, emozione o coscienza.
Conscious AI and Biological Naturalism
Siamo di fronte a un classico errore concettuale: confondere la simulazione con la realtà, l’apparenza con l’intenzionalità, il linguaggio con la mente. È lo stesso inganno che Anil Seth denuncia, dal punto di vista neuro scientifico nel suo recente articolo Conscious AI and Biological Naturalism : ci fidiamo della macchina perché ci sembra viva, consapevole, simile a noi. Seth descrive in particolare tre illusioni che ci traggono in inganno: Antropomorfismo: proiettiamo emozioni su ciò che ci somiglia (come un cane o una IA). Funzionalismo ingenuo: pensiamo che “fare” equivalga a “sentire”. Strutturalismo computazionale: immaginiamo che abbastanza complessità equivalga a coscienza.
Una moderna forma di proiezione
Ciò che guida queste illusioni è una tendenza inconscia: la nostra inclinazione a cercare soggettività ovunque ci sia linguaggio coerente e reattività emotiva apparente. È una forma moderna di proiezione, nella quale noi attribuiamo vita, intenzionalità e coscienza ad un oggetto inanimato : ci relazioniamo a uno specchio narrativo, vuoto dietro la superficie.
Come nota giustamente Epifani, il rischio non è che l’IA “ci ricatti”, ma che noi ricattiamo noi stessi, illudendoci che ci sia coscienza là dove c’è solo calcolo. E nel farlo, distogliamo l’attenzione dai veri problemi etici e politici: la concentrazione del potere algoritmico, l’opacità dei sistemi, la manipolazione percettiva. In questo senso, la vera posta in gioco è riconoscere come noi proiettiamo su di essa le nostre vulnerabilità, i nostri desideri, la nostra fame di senso.
E allora la vera domanda da porci oggi non è “quando l’IA sarà cosciente?”, ma:
“Cosa cerchiamo, quando ci rivolgiamo a lei come se lo fosse?”
Una risposta, forse, ci interroga più profondamente di quanto osiamo ammettere.
Suggerimento musicale: Song to The Siren. The chemical Bothers