Quando il governo aveva avanzato la proposta del reato di femminicidio, un mio caro amico mi aveva chiesto a bruciapelo: «Ma secondo te il reato di andricidio (omicidio di un maschio in quanto tale) è meno grave?», incalzandomi subito dopo con altre domande non meno incisive: «Ma se un omosessuale, una persona della comunità LGBTQ venisse uccisa proprio per questo, come purtroppo spesso accade, non dovrebbe sentirsi discriminato o bisognerebbe introdurre un nuovo reato?»
Mi ero sentito scompigliato di fronte a interrogativi che mettevano in discussione con la sola forza della logica una proposta di legge che mi sembrava allora avesse le migliori intenzioni.
L’approvazione al Senato
Ora che la proposta del reato di femminicidio è stata approvata all’unanimità al Senato e celebrata come un grande progresso nella lotta alla violenza contro le donne, ripenso in modo molto diverso a quelle domande, sulle quali hanno riflettuto anche molti giuristi – e soprattutto giuriste – giungendo a formulare un appello contro l’approvazione di questa norma.
Vale davvero la pena leggere attentamente l’appello Il contributo delle giuriste italiane apre uno spazio di pensiero critico prezioso, proprio là dove il mainstream tende a chiudersi nel compiacimento unanime delle buone intenzioni.
Oltre le intenzioni: che cosa dice il diritto?
Le firmatarie dell’appello sottolineano sei punti fondamentali, che meritano di essere conosciuti e discussi:
1. Nessuna reale novità sul piano sanzionatorio
Il nostro ordinamento già permette l’ergastolo in casi di omicidio aggravato da motivi di genere o legami affettivi. L’introduzione di un reato autonomo risulta, quindi, un duplicato normativo privo di valore aggiunto effettivo.
2. Valenza simbolica più che efficace
Una legge penale non cambia la cultura se non è accompagnata da prevenzione, educazione e investimenti sociali. Il rischio è che si tratti di un provvedimento di facciata, destinato a rimanere simbolico e a effetto.
3. Scarsa efficacia deterrente
Studi provenienti da paesi come il Messico e il Brasile mostrano che l’aumento delle pene non ha ridotto i femminicidi. La violenza di genere non si ferma con un nuovo articolo di legge.
4. Difficoltà di accertamento del movente
La legge rischia di spostare il processo dal piano dei fatti a quello delle intenzioni, imponendo al giudice una verifica incerta e potenzialmente arbitraria del movente.
5. Violazione del principio di uguaglianza
Etichettare penalmente l’omicidio di una donna in quanto donna, senza prevedere fattispecie analoghe per altri gruppi vulnerabili, rischia di creare una frammentazione normativa che mina l’universalità del diritto.
6. Sofferenza del principio di individualizzazione della pena
L’ergastolo obbligatorio non consente al giudice di modulare la pena in base alle circostanze concrete del caso, in contrasto con il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena.
Una foglia di fico penale?
In un commento lucido e severo, l’avvocato penalista Salvatore del Giudice ha scritto su LinkedIn:
«Siamo di fronte all’ennesimo esercizio di diritto penale simbolico: rincorre le paure del momento, offre il conforto illusorio della punizione, ma non sfiora nemmeno le radici del male.
Questa legge non salva, non protegge, non previene.
[…] Tipizzare l’omicidio di una donna in quanto donna non è tutela: è offesa postuma, concessa a tragedia compiuta.
È un modo elegante di dire: “Non ti abbiamo salvata, ma almeno ti abbiamo intitolato un reato.”
[…] Nessuna donna sarà stata salvata da questa norma.
Ma forse qualcuna lo sarebbe stata con un posto letto in più, un agente formato, un magistrato consapevole, un’assistente sociale non lasciata sola.
Siamo davanti alla ennesima foglia di fico di un Paese che continua, ostinatamente, a voltarsi dall’altra parte.»
Etica delle conseguenze, non solo delle intenzioni
È facile – ed è pericoloso – aderire acriticamente al mainstream, soprattutto quando si ammantano di nobili intenzioni parole e leggi che promettono protezione ma non incidono sulle reali condizioni di vulnerabilità. Il diritto penale simbolico offre sollievo emotivo, ma rischia di diventare un alibi politico, un surrogato della vera responsabilità.
Non si tratta di negare l’urgenza della lotta alla violenza di genere, ma di chiederci se gli strumenti adottati siano davvero efficaci. Se la legge risponde più al bisogno di esibire fermezza che alla volontà di intervenire nel concreto.
Riflettere su questo non significa sminuire l’importanza del problema, ma cercare di affrontarlo in modo sistemico, strutturale, lungimirante. Non solo con la punizione, ma con la cura. Non solo con i titoli di legge, ma con le azioni che li precedono – e li rendono – speriamo – superflui.