Il silenzio dietro l‘orrore

Si può scrivere durante l’orrore? E si può scrivere anche di qualcos’altro che non sia l’orrore stesso? Naturalmente è una domanda retorica, la mia, visto che siamo invasi non solo dalle più disparate informazioni e dai più assordanti chiacchiericci in forma scritta oltre che orale, ma che gli scrittori stessi continuano, per fortuna, a scrivere e gli altri artisti a esprimersi nella loro forma artistica. D’altro canto lo stesso Adorno, autore del celebre monito „scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro“, aveva successivamente corretto il tiro e aggiunto „il dolore perennemente sofferto ha il diritto di esprimersi; quindi forse non è vero che dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia“. Paul Celan aveva dal canto suo dimostrato che la poesia può divenire lingua della memoria e del lutto e il nostro Primo Levi aveva fatto della scrittura una testimonianza etica. Dunque si può e anzi si deve scrivere dell‘orrore. Ma cosa e come scriviamo al tempo dell‘orrore?


Come scriviamo al tempo dell’orrore 


Al di là della ristretta categoria degli artisti, per noi comuni mortali che abbiamo accesso, tramite i social e i blog, ad una possibilità di scrittura, se non creativa ed artistica quantomeno personale e potenzialmente aperta (si fa per dire) al confronto con la riflessione altrui, cosa significa scrivere al tempo dell’orrore?

Polarizzazione

È constatazione quantomai ovvia che i social polarizzano le nostre posizioni o forse sarebbe meglio dire che rendono evidente la tendenza alla polarizzazione che è dentro di noi. Ci imbattiamo dunque, forse ancora più frequentemente del solito, in post che altro non sono che petizioni di principio, accompagnate da reciproche accuse, espresse con un linguaggio talmente offensivo da giungere spesso ai limiti della disumanità che si vuole denunciare. Si può immaginare che tali accuse reciproche, che sembrano riprendere gli stessi toni della guerra, abbiano la funzione di esprimere la rabbia suscitata dall’impotenza. Non potendo fare nulla più che urlare, svaluto fino alla disumanizzazione il mio nemico.

Modo di equivalenza

Le parole del ministro israeliano Smotrich
“C’è una vera e propria bonanza immobiliare a Gaza… Dobbiamo vedere come ci dividiamo la terra in percentuali.”… “La demolizione, la prima fase del rinnovamento della città, l’abbiamo già fatta. Ora dobbiamo solo costruire.” sono a tal punto rivoltanti e disumanizzanti da suscitare, credo, rabbia anche nella più pacifica e gentile anima pacifista e anti-violenta. Non sono da meno alcune dichiarazioni di Hamas, ma ci si aspetterebbe da un ministro di uno Stato un atteggiamento diverso da quello di un’organizzazione terrorista.
Utilizzando i concetti della mentalizzazione si potrebbe sostenere che le posizioni di radicale svalutazione umana da una parte dall’altra corrispondono al modo di equivalenza, tale per cui sotto stress dipingiamo la realtà esattamente come la percepiamo emozionalmente, come i bambini piccoli, quando hanno paura del fantasma sotto il letto. Così come per loro il fantasma esiste nonostante le accurate spiegazioni razionali in senso contrario dei loro genitori, anche per noi il mondo prende i contorni delle nostre emozioni, anche se la ragione ci dovrebbe indurre a considerare ciò che va al di là delle nostre emozioni stesse e a vedere la realtà anche con gli occhi degli altri.

Rimozione 

Un altro meccanismo, ampliamente applicato è quello di rimuovere il più possibile la realtà disturbante e le nostre relative emozioni e di concentrarci sui nostri piccoli giardini, botanici o tecnologici, magari percependo una maggiore rabbia del solito se la mentuccia non cresce bene, l’ultimo modello di cuffie senza fili non mantiene le promesse, ChatGPT è meno intelligente o più stupido del solito, i saldi di stagione si rivelano essere meno convenienti dell‘estate scorsa. Soprattutto le notizie, sul genocidio palestinese, sull’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e sui mille altri conflitti che affliggono persone di cui non conosciamo nemmeno l’esistenza vengono evitate in nome del benessere soggettivo: tanto non ci posso fare niente, perché devo stare anche male?

Indifferenza

Così tra equivalenza e rimozione, tra rabbia e impotenza, si fa strada l’indifferenza: le guerre in fin dei conti son sempre esistite, i genocidi anche, i politici sono corrotti, le istituzioni internazionali dicono belle parole ma non sono capaci di gesti concreti. Il vero problema in tal modo rimangono i migranti, la criminalità, il carovita, gli stipendi bassi, le scarse, scarsissime possibilità di accedere per i giovani a migliori condizioni lavorative, finanziarie, sociali e culturali. Problemi quanto mai reali e drammatici che vengono investiti di una carica di impotenza e di rabbia ancora più forte. Come quando due partner spergiurano di amarsi alla follia e che l‘unico problema che impedisce loro di essere felici è l‘orario di lavoro, la suocera malata, la cognata intrigante, il bambino capriccioso cui non è ancora stato diagnosticato il disturbo e al quale non è stata ancora prescritta la corretta terapia. Se quel dannato impedimento non ci fosse, loro sarebbero felicissimi o comunque lavorerebbero alla loro relazione in modo utile e costruttivo. Ma poiché nessuno risolve quel dannato impedimento, loro continuano a scannarsi, ad accusarsi reciprocamente delle cose più turpi fino a rassegnarsi e a cedere al silenzio. Un silenzio, si intende, tecnologico, fatto di cuffie, di smartphone e di social, sui quali si può mandare tutti/e a quel paese tutto senza fiatare.
Forse non è vero che il silenzio protegge.
A volte è solo fuga.
Altre volte è ascolto.
Sta a noi decidere se usarlo per nascondere l’orrore o per guardarlo in faccia, e scriverne.

Immagine creata da AI

Suggerimento musicale: Hildur Guðnadóttir – Fólk fær andlit