Forse tutti i draghi della nostra vita sono in realtà principesse che attendono soltanto di vederci belli e coraggiosi. Forse tutto ciò che ci spaventa, nel suo intimo, non è altro che qualcosa di inerme che chiede il nostro amore
Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta (1903)
Sono reduce, insieme ad altri colleghi e colleghe, da un congresso su formazione e supervisione che abbiamo a lungo preparato. Almeno a prima vista, non ha portato i frutti sperati: non tanto per il numero delle presenze, quanto per l’atmosfera emotiva, segnata dalla difficoltà a far passare un messaggio che ritenevamo essenziale. Vale a dire che l’elaborazione di un rapporto di cura — ma anche di ogni rapporto professionale in ambito medico, psicologico, infermieristico e scolastico — richiede tempo e disponibilità all’ascolto.
Scarto tra richiesta ed offerta di riflessione
Se mi permetto di scriverne qui, non è certo per elaborare a danno dei miei poveri sparuti lettori la mia frustrazione – che è caso mai la causa scatenante della riflessione – ma perché mi sembra che questo scarto tra la richiesta di riflessione – negli ambiti sopra citati ma anche più in generale nella comunità sociale e politica di cui facciamo parte – l‘offerta della stessa e il grado di (in)soddisfazione che ne deriva sia una caratteristica del nostro tempo molto „performante“ ma ben poco soddisfatto e soddisfacente.
La richiesta di adeguata formazione, supervisione, consulenza nelle sue più disparate forme non è mai stata tanto forte come negli ultimi anni, salvo il fatto che le molte delle proposte formative e di riflessione cadono nel vuoto o quasi, a tal punto che ci si potrebbe chiedere se vi sia uno sdoppiamento di personalità in coloro che fanno la richiesta e poi la disertano. Ma anche nel fortunato caso in cui domanda ed offerta si incontrino, la comunicazione tra i partecipanti risulta spesso difficile. Le motivazioni sono naturalmente innumerevoli e non è certo qui il caso di prenderle tutte in considerazione.
Difficile integrazione
Alcune tuttavia mi sembrano degne di riflessione perché riguardano tutti noi come individui e cittadini.
Le proposte formative e riflessive degli istituti di appartenenza (per intenderci delle scuole di psicoterapia oppure delle istituzioni mediche, psico-sociali e pedagogiche) vengono in realtà frequentate regolarmente non solo e non tanto per l’alto senso del dovere di chi studia e lavora in questi istituzioni. Ma piuttosto perché quelle ore sono obbligatorie sia al fine del conseguimento del titolo che degli aggiornamenti dello stesso.
Sensibilità ed empatia
Non si può dire lo stesso delle esperienze di supervisione o riflessione che cercano di integrare indirizzi o professionalità diverse con metodi, come per es il Balint e simili, che possono essere vissuti e compresi da tutti/e, perché fanno riferimento alla capacità di percepire le emozioni e sensazioni proprie e al tentativo di immedesimarsi in quelle altrui. La condizione necessaria è però che ci “lasciamo andare”, che abbiamo cioè il desiderio e la disponibilità ad ascoltare i nostri vissuti e quelli altrui, il ché a sua volta presuppone che abbiamo fiducia non solo e non tanto in ciò di cui siamo fermamente convinti ma anche nel nostro sentire e patire e in quello altrui. Quello di cui abbiamo bisogno in questi momenti di condivisione non è la forza delle nostre certezze ma il coraggio della nostra fragilità. Se non abbiamo fiducia (epistemica, Fonagy) nella nostra sensibilità e nel corpo che ci consente di percepirla, tanto meno abbiamo fiducia nella sensibilità altrui, esperita come vergognosa debolezza dalla quale tenerci a debita distanza, se non addirittura da bandire o reprimere. La nostra sensibilità e quella altrui in questo caso non destano fiducia ma diffidenza e paura.
Convinzioni incontrovertibili
A questo punto però non ci rimangono che le nostre convinzioni, che diffondiamo e proclamiamo come fossero verità sacrosante e incontrovertibili, di cui ci serviamo per convincere gli altri, considerati al pari di poveri mentecatti incapaci di comprendere la (nostra) verità o perfidi nemici che ci vogliono inculcare la loro.
Riesco a spiegarmi solo così perché siamo divenuti, stiamo diventando, non solo come professionisti ma come cittadini ed esseri umani, sempre più desiderosi, a parole, di riflessione ma sempre meno disponibili a metterci in ascolto dell’altro e del suo punto di vista. Mai come oggi possiamo accedere a tanto sapere, e mai come oggi sembriamo rifiutarlo per farci portavoci di teorie (si fa per dire) che con un paio di raffazzonate idee spiegano tutto e il contrario di tutto. A fronte di un accesso al sapere tanto pervasivo da sembrare invadente o minaccioso (l’AI distruggerà la nostra intelligenza!) facciamo nostre le tesi dí predicatori religiosi e politici cui fa difetto la più elementare logica.
Prediche intolleranti
Addirittura il più alto consesso internazionale di tutto il pianeta, ormai lontano da ogni per quanto irrealistico ma almeno utopico tentativo di collaborazione se non di solidarietà, si è trasformato in un palco sul quale predicare la propria verità condannando al contempo quelli che non l’accettano. Certo gli impulsi più malvagi hanno sempre regnato ovunque esseri umani si incontrano e si scontrano ma non può non stupire che nell’era dell’informazione diffusa e condivisa, l’utopia sembri essere svanita, sostituita da uno sconvolgente cinismo, che sembra non risparmiare nessuno.
Oh gran bontà de cavalieri antiqui
Sto celebrando anch’io, come hanno fatto prima di me milioni di persone giunte alla mia età, la „gran bontà de’ cavalieri antiqui!“? Narcisisticamente ferito, mi lascio irretire da un vittimismo incapace di accettare la responsabilità e la realtà nelle sue più dolorose ma inevitabili conseguenze?
Autentica sensibilità
Può darsi, eppure credo di essere testimone di una sensibilità diversa, non solo quella passata, che ci appare sempre idealizzata nei vaghi ricordi del passato, ma anche quella che vivo ogni giorno nel rapporto con le persone che, come me e come tutti noi, ferite, pur tra mille paure, sofferenze e ambivalenze, si lasciano toccare nel dialogo. Quello che noi terapeuti impariamo ogni giorno dalle persone che non a caso chiamiamo pazienti (chi patisce e sopporta) e che tutti noi come essere umani impariamo dal nostro prossimo, è appunto che tutti/e siamo feriti/e. Ma impariamo anche che ciò non riduce il nostro valore, né tantomeno la nostra dignità e che nell‘incontro con l’altro si può sviluppare un dialogo nel quale possiamo faticosamente costruire la fiducia per poterci fidare, tra mille paure ed incertezze, dell‘altro e l‘altro di noi proprio perché fragili. La nostra fragilità è in definitiva l‘unica nostra certezza, il dialogo l‘unica nostra via di salvezza se non vogliamo rifugiarci nella stupida illusione della potenza.
Immagine: generata da AI
Suggerimento musicale: Henryk Górecki – Symphony No. 3, II movimento (Symphony of Sorrowful Songs)