“Farti ballare con il tuo carceriere, così come farti partecipare alla tua esecuzione, è un atto di estrema brutalità.”
(Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, citando Nabokov, Invito a una decapitazione)
Nel romanzo breve di Nabokov Invito a una decapitazione c’è un’immagine che non si dimentica facilmente: un prigioniero che danza con il suo carceriere.
Nabokov la scrive come un paradosso del potere: la vittima costretta a collaborare con chi la opprime.
Azar Nafisi, in Leggere Lolita a Teheran, ne fa la metafora della sudditanza psicologica, sociale e politica che non si impone solo con la forza, ma penetra ancora più in profondità, costringendo la vittima alla complicità con il carnefice.
Il circolo vizioso della violenza
È un’immagine che parla al nostro presente.
Perché la violenza contro le donne non è solo un abuso che avviene in privato, sfruttando la paura della vittima, la sua titubanza a reagire, la difficoltà ad ammettere di essersi sbagliata nella valutazione iniziale.
La violenza sulla donna è anche un sistema che chiede alla vittima di partecipare al proprio annientamento e alle istituzioni di restare a guardare.
La paura non immobilizza solo la donna — immobilizza anche le istituzioni, spesso paralizzate da inerzie culturali, da calcoli politici e da un linguaggio che consola più che agire.
A cosa serve intervenire dopo?
Come ha scritto Elena Tebano sul Corriere della Sera, il governo ha scelto di concentrarsi su ciò che accade dopo il femminicidio: l’inasprimento delle pene, l’introduzione di un reato autonomo di femminicidio, misure dal forte valore simbolico ma di scarsa efficacia preventiva.
Nel mio articolo Quando la legge consola più che proteggere (Nòva, 27 luglio 2025) osservavo che:
“Ogni volta che una norma nasce sull’onda dell’emozione, rischia di funzionare più come sedativo sociale che come strumento di tutela reale.
La legge punisce, ma non previene; consola la collettività, ma non protegge le donne.”
La giustizia punitiva arriva sempre troppo tardi: serve uno sguardo che entri nella genesi relazionale e psicologica della violenza, non solo nel suo esito.
Intervenire molto prima
Prevenire significa intervenire molto prima.
Riconoscere i segnali d’allarme, garantire allontanamenti tempestivi, potenziare case rifugio e centri antiviolenza, fornire sostegno psicologico e legale alle donne che vogliono liberarsi da una dipendenza non solo economica ma anche affettiva e identitaria.
Non basta elogiare le donne che denunciano: bisogna aiutarle a sentirsi — e a essere — in sicurezza quando lo fanno, offrendo loro l’accompagnamento di un’assistente sociale e una psicoterapia finalizzata a rompere il circolo vizioso della dipendenza o almeno a distanziarsi, fisicamente e psicologicamente, dal partner violento e dal suo sistema di potere.
È inutile però farsi illusioni: il sostegno psicosociale e la psicoterapia non sono misure a effetto immediato.
Per arrivare alla consapevolezza di essere vittime di abusi — sessuali, fisici o psicologici — servono mesi, talvolta anni.
Nel frattempo, devono scattare misure di protezione automatiche in caso di minacce o, a maggior ragione, di violenza conclamata.
Il caso esemplare di Pamela Genini
Come abbiamo dovuto ancora una volta constatare nel caso del femminicidio di Pamela Genini — donna giovane, con un’ottima formazione e grande intraprendenza professionale — le minacce del partner violento riguardavano anche i suoi familiari, e le violenze, anche fisiche, duravano da tempo.
Tanto da aver già condotto la donna al pronto soccorso di Cervia, dove «raccontò le botte e fece il nome del compagno», ma la relazione dei carabinieri non finì in alcun fascicolo delle due Procure.
Pamela non denunciò e non fu attivato il codice rosso, nonostante il referto parlasse chiaro:
«Buttata a terra e colpita alla testa con pugni, trascinata per i capelli per diversi metri.»
(Fonte: Corriere di Bergamo, 19 ottobre 2025)
Ci si domanda, legittimamente, perché, a fronte di una descrizione tanto chiara ed esplicita, non sia scattata la denuncia d’ufficio.
Va chiarito cosa, nella comunicazione tra gli organi competenti, non abbia funzionato, impedendo l’attivazione di misure di protezione adeguate.
Ma in molti altri casi la situazione è ancora più complessa, perché la donna, impaurita, minimizza o nasconde l’accaduto per proteggere, anziché se stessa, il partner che la minaccia.
Qui può essere d’aiuto la tecnologia — quella stessa intelligenza artificiale tanto temuta, ma che in questo caso può davvero salvare vite.
Tecnologia e prevenzione: quando l’algoritmo protegge
Un esempio viene da VIDeS, una piattaforma che utilizza l’intelligenza artificiale per prevenire la violenza sulle donne.
Analizzando i dati di accesso ai pronto soccorso, riesce a individuare casi sospetti di violenza domestica, anche quando la vittima non è ancora pronta o in grado di denunciare.
Un algoritmo che non spia, ma ascolta i segnali.
(Leggi di più qui)
Curare i maschi violenti prima che diventino omicidi
Non basta proteggere le vittime: è necessario anche curare la violenza maschile, prima che le sue conseguenze diventino irreversibili, intervenendo là dove la violenza nasce — nel modo in cui molti uomini sono stati educati a intendere la forza, il possesso, la vergogna, la paura del rifiuto.
Da anni la rete Maschile Plurale lavora su questo fronte, con uomini di età, esperienze e orientamenti diversi che si interrogano criticamente sul tema della violenza di genere.
È un laboratorio culturale e umano, dove si prova a disinnescare la cultura del possesso partendo dal linguaggio, dal corpo, dalle emozioni.
Qui la fragilità non è vista come una minaccia alla virilità, ma come una risorsa di conoscenza e di relazione.
Si lavora sulla capacità di riconoscere la propria rabbia, di nominarla, di gestirla senza tradurla in dominio o sopraffazione.
Come e quando fare prevenzione
L’opera di educazione alla risoluzione responsabile, matura e pacifica dei conflitti deve iniziare molto prima, fin dai primi anni di scuola.
Insegnare e praticare il rispetto, la tolleranza, l’uguaglianza dei diritti e dei doveri tra uomo e donna deve cominciare fin dall’avvio della formazione, senza che ideologie o opinioni politiche possano arbitrariamente mettersi di mezzo.
Quando la politica ferma l’educazione
Eppure, nel giorno del femminicidio di Pamela Genini, la maggioranza di governo ha approvato un emendamento che estende il divieto di introdurre nelle scuole medie programmi di educazione affettiva e sessuale senza il consenso dei genitori.
Se la norma diventerà legge, sarà impossibile per le scuole elementari e medie — come scrive ancora Elena Tebano — invitare psicologhe o esperte dei centri antiviolenza a spiegare quali sono i segnali di una relazione violenta.
Alle scuole superiori sarà possibile farlo solo con il consenso informato dei genitori.
Una misura che colpisce proprio chi ne avrebbe più bisogno: ragazzi e ragazze che crescono in una famiglia dove c’è un marito o un padre violento.
Quando una scuola vorrà invitare una psicologa dei centri antiviolenza o un esperto delle forze dell’ordine che si occupa di prevenzione, sarà quel padre violento a decidere se i suoi figli potranno incontrarli e imparare come chiedere aiuto.
Con il ddl Valditara potrà impedirglielo. È l’esatto contrario della prevenzione.
Educare alla mentalizzazione: imparare a gestire i conflitti
A smentire le posizioni del ddl Valditara, chiaramente ideologiche e antiscientifiche, basterebbe l’esempio formativo della mentalizzazione: un metodo terapeutico che nulla ha a che fare con il “gender” o la “fluidità sessuale”, ma che si è dimostrato un ottimo strumento pedagogico e psicologico per ridurre la violenza nei giovani.
L’Anna Freud Centre in Inghilterra sta conducendo studi — ad esempio lo studio MICA (Mentalizing Intervention for Children and Adolescents) — per verificare quanto interventi basati sulla mentalizzazione, ossia la capacità di riconoscere e riflettere sui propri e altrui stati mentali, possano ridurre comportamenti aggressivi e violenti nei giovani.
La ricerca mostra che migliorare la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, riflettere sulle proprie emozioni e su quelle altrui, e gestire in modo consapevole i conflitti, è un fattore protettivo contro la violenza.
Ecco dunque perché è urgente introdurre nelle scuole e nei percorsi formativi — fin dalla tenera età — gruppi strutturati di mentalizzazione, dove ragazze e ragazzi imparino a capire le emozioni proprie e altrui, a gestire la rabbia, a negoziare i conflitti senza sopraffazione.
Uno studio italiano condotto su un campione di adolescenti ha evidenziato come «nove mesi di psicoterapia di gruppo basata sulla mentalizzazione» abbiano portato a un miglioramento significativo delle capacità di mentalizzazione e a una riduzione dei tratti disfunzionali.
Questi dati suggeriscono che l’approccio della mentalizzazione, già validato in ambito clinico, possa diventare anche una metodologia educativa e preventiva, capace di costruire una cultura della relazione e della responsabilità reciproca.
Conclusione: dalla paura alla responsabilità
Spezzare il cerchio della violenza significa uscire dal fatalismo, dalle parole rituali, dai cortei ufficiali che si ripetono senza convinzione e senza effetto.
Significa trasformare la paura in responsabilità condivisa — sociale, educativa, terapeutica — e costruire progetti concreti: per insegnare alle nuove generazioni una mentalità tollerante e rispettosa, capace di riconoscere e gestire con maturità e responsabilità il conflitto di genere; per individuare e promuovere punti di riflessione e di rottura del legame patologico che unisce carnefice e vittima; per aiutare, sostenere e proteggere la donna che ne sta uscendo; per accompagnare terapeuticamente chi fatica ancora a farlo; per difendere da minacce e violenze chi ha trovato il coraggio di denunciare.
Significa non solo chiedere giustizia per chi non c’è più, ma costruire condizioni concrete perché nessuna debba più danzare con il proprio carceriere.
🎧 : Cristina Donà – “Settembre”.
Per chi sa che la forza non sta nel colpire, ma nel saper fermare il passo.