Ho avuto la fortuna di incontrare il maestro Peppe Vessicchio poche settimane fa, al Festival della Civiltà a Roma. Ci siamo trovati fianco a fianco pochi minuti prima di una discussione congiunta sull’impiego dell’intelligenza artificiale. Non era molto tempo, eppure è bastato per cogliere qualcosa della sua signorilità rara, di quella preparazione che non ha bisogno di essere esibita.
Selfie, disponibilità e concentrazione
Mentre parlavamo, cercando di entrare nel tema dell’AI, la conversazione veniva continuamente interrotta da una processione infinita di ragazzi che volevano un selfie con lui. E non solo ragazzi: anche le autorità, un po’ più impacciate, si avvicinavano con lo stesso desiderio di essere ritratte al suo fianco. Lui non ha mai mostrato un cenno di fastidio. Ogni volta tornava a me con lo stesso tono calmo, la stessa disponibilità, come se non avesse perso il filo. In realtà era lui il filo.
Un intervento in piedi
Il suo intervento, tenuto in piedi come se stesse dirigendo un’orchestra invisibile, è stato una ricostruzione limpida e affascinante delle origini della musica: dal ritmo primordiale, battito condiviso che nasce dal corpo e dalla comunità, fino alla musica come spazio simbolico capace di tradurre emozioni in una forma percepibile da tutti. Un linguaggio universale, dove riconoscersi diventa possibile e, a volte, necessario.
Creatività e tolleranza
Raccontò anche un aneddoto che mi fece sorridere: l’esperienza con alcuni aspiranti cantanti che cantanti non erano affatto. Per tentare di coronare il loro sogno si erano rivolti a un programma di intelligenza artificiale che ricostruiva la voce che avrebbero voluto avere. Lui, da musicista, si era accorto in un attimo dell’irrealismo del progetto, eppure non c’era traccia di sarcasmo nel suo racconto. Con la stessa signorilità che dava ritmo alle sue parole, aveva accolto il loro tentativo. In fondo, anche quello, a modo suo, era un gesto creativo.
Mi aveva ascoltato con un’attenzione sorprendente mentre gli parlavo delle mie riflessioni sull’AI e di uno studio del MIT sul “cognitive debt” che contraiamo quando deleghiamo troppo alle macchine . Non era un ascolto passivo: era la sua calma attiva, fatta di profondità più che di enfasi. Aveva quella rara capacità di tenere insieme fermezza e apertura, come se la musica che custodiva dentro di sé gli avesse insegnato a non spingere mai, ma a far spazio.
Armonia interiore
Quello che mi ha colpito più di tutto è stato proprio questo: la sua armonia interiore. Un’armonia non ostentata, non luminosa a tutti i costi, ma naturale, quasi artigianale. La sentivi nella mimica, nei gesti misurati, nell’aria di chi ha fatto un lungo lavoro su di sé senza perdere la gioia creativa. Stare accanto a lui, anche solo per pochi minuti, dava la sensazione di essere accordati. Come se, per un attimo, la frequenza giusta l’avessimo trovata davvero.
Un incontro vero
È un ricordo breve, ma pieno. Un incontro vero. E sono grato di averlo avuto, anche solo per quel desiderio di armonia che mi ha lasciato addosso, e che in qualche modo si è già realizzato. Purtroppo è già ora del congedo. RIP
Suggerimento musicale: Elio e le storie tese, La terra dei cachi