Negli ultimi vent’anni abbiamo imparato a ripetere una diagnosi scontata, quasi automatica: viviamo in un’epoca narcisista. I social ne sarebbero la vetrina se non la causa, i giovani le vittime e i protagonisti insieme e l’intera cultura occidentale sarebbe precipitata negli ultimi decenni in un buco nero narcisistico, preannunciato dal famoso saggio di Christopher Lasch “The Culture of Narcissism: American Life in an Age of Diminishing Expectations”, uscito nel 1979 che credo sia tra i libri più citati e meno letti (me compreso) della critica contemporanea. Il saggio anticipa effettivamente di quasi trent’anni – mi dice ChatGPT – il dibattito contemporaneo sul “narcisismo sociale” descrivendo una società centrata sull’immagine, sull’apparenza e sull’autoreferenzialità, evidenziando il declino dell’autorità parentale e delle forme tradizionali di comunità ed interpretando il narcisismo non come tratto individuale, ma come struttura culturale prodotta dal capitalismo tardo-moderno.
Ego che si gonfia nel tempo
Poi è arrivata Jean Twenge, la psicologa statunitense che nel 2008 pubblicò su Journal of Personality un meta-studio destinato a segnare un’epoca – Egos Inflating Over Time: A Cross-Temporal Meta-Analysis of the Narcissistic Personality Inventory.
Twenge mostrava come, tra il 1979 e il 2006, gli studenti dei college americani avessero registrato un aumento significativo nei punteggi di narcisismo grandioso misurati con il Narcissistic Personality Inventory (NPI). L’aumento appariva marcato: circa un terzo di studenti in più risultava “narcisista” rispetto agli anni Ottanta. Un risultato che, complice anche la potenza narrativa dei suoi libri (Generation Me, The Narcissism Epidemic, poi iGen), è diventato senso comune.
Epidemia narcisistica
Non solo. Ulteriori ricerche empiriche, negli anni successivi, sembravano confermare l’idea di un aumento cross-temporale del narcisismo.Seguendo questa linea interpretativa si è fatta strada l’ipotesi che comportamenti narcisistici subclinici – auto-referenza, egocentrismo, bisogno di visibilità – stessero diventando tratti distintivi delle giovani generazioni e che il motore di questa trasformazione non fosse psicologico in senso stretto, ma culturale: il progressivo aumento dell’individualismo nelle società occidentali. Per spiegare il fenomeno vennero chiamati in causa di volta in volta: l’aumento dell’autostima media nel corso dei decenni, la diminuzione documentata dell’empatia nei giovani adulti, il declino della fiducia nella comunità e nelle istituzioni religiose.
Al punto che, scomparse le mezze stagioni, si cominciò a parlare di “epidemia narcisistica”.
Eppure, le storie che diventano senso comune non sono sempre quelle che resistono al vaglio del tempo.
Oltre mezzo milione di dati, 55 Paesi, 40 anni: lo studio che cambia la storia
Ottobre 2024: sullo stesso Journal of Personality sul la Twenge aveva pubblicato il suo studio sull’ego che si gonfia nel tempo, esce lo studio con un titolo che è già una dichiarazione di intenti:
A Farewell to the Narcissism Epidemic? A Cross-Temporal Meta-Analysis of Global NPI Scores (1982–2023). („Un addio all’epidemia di narcisismo? Meta-analisi cross-temporale dei punteggi globali del NPI (1982–2023)“)
È la più ampia meta-analisi mai condotta sul tema, con 1105 studi inclusi, 546.225 partecipanti appartenenti a 55 Paesi, relativa ad un periodo di oltre 40 anni (1982–2023).
Gli autori utilizzano ancora l’NPI – lo stesso strumento usato da Twenge, focalizzato sul narcisismo grandioso – ma lo applicano a una base dati globale e a un arco temporale doppio. Il risultato? Radicale nella sua semplicità: Il narcisismo grandioso non è aumentato. È leggermente diminuito. Non solo negli Stati Uniti, non solo negli studenti universitari, ma nel mondo, e lungo 40 anni. La famosa curva ascendente ipotizzata da Twenge non emerge: negli anni ’80-’90 i punteggi sono stabili, dagli anni 2000 in poi mostrano un declino leggero ma costante. Neppure la crisi finanziaria del 2008, spesso invocata come turning point psicoculturale, segna una svolta significativa. Le joinpoint regressions dello studio non identificano cambi di pendenza coincidenti con l’anno del crollo di Lehman Brothers. In sintesi: l’epidemia non c’è stata.
La risonanza culturale della “epidemia narcisistica”
Come ha scritto di recente Luca Angelini nella sua rassegna sul Corriere della Sera, la narrazione dell’epidemia è sopravvissuta molto più a lungo dei dati che la sostenevano. Angelini ricostruisce con precisione sia il ruolo di Twenge sia l’eco mediatica che generò la sua ipotesi, arrivando fino ai nuovi risultati di Pietschnig e Oberleiter e concludendo chiaramente:“ L’unica tendenza discernibile è negativa: i tassi di narcisismo sono in realtà in calo.”
Come spiegare allora la percezione collettiva opposta? Perché ci sembra di vivere circondati da egocentrismo, selfie, vanità, autopromozione compulsiva?
Comportamenti prosociali
Un’ipotesi, presentata dagli stessi autori dello studio, suggerisce che il declino del narcisismo possa riflettere un cambiamento più profondo nel comportamento giovanile. Negli ultimi decenni, le nuove generazioni hanno infatti mostrato meno condotte problematiche (ad esempio il calo dei reati minorili) e, parallelamente, più comportamenti prosociali, come l’aumento significativo del volontariato tra adolescenti e giovani adulti. In questa lettura, la società avrebbe progressivamente spostato l’attenzione su valori come accettazione, inclusione e tolleranza – ad esempio rispetto alle differenze etniche o all’orientamento sessuale. È plausibile che un clima culturale di questo tipo agisca come un contrappeso allo sviluppo di tratti narcisistici più marcati.
Il paradosso dei social: meno grandiosità, più confronto verso l’alto
Un‘altra spiegazione potrebbe giungere dai social: non perché alimentino il narcisismo grandioso, ma perché favoriscono un fenomeno diverso: l’upward social comparison – il confronto verso modelli idealizzati, spesso irraggiungibili, Il risultato psicologico prevalente non è la grandiosità, ma la ferita narcisistica: il senso di non essere mai abbastanza. In altre parole: i social non gonfiano l’ego, lo mettono alla prova. E spesso lo fanno vacillare. E la stessa Twenge,m ha ammesso che l’effetto sociale dominante non è più la crescita dell’ego, ma l’aumento della sensazione di inadeguatezza.
La crescita di ansia e depressione e il ritiro dell’ego
Un’altra ipotesi, pure evidenziata nello studio citato, collega il calo del narcisismo all’aumento della psicopatologia giovanile negli ultimi decenni. Svariati studi hanno documentato un incremento significativo della depressione e dei disturbi d’ansia tra bambini e adolescenti nei Paesi ad alto reddito. In questo scenario, non sorprende che i livelli auto-riferiti di narcisismo risultino in diminuzione: se cresce il peso dell’ansia e della depressione nelle nuove generazioni, è plausibile che ciò si rifletta anche in una progressiva contrazione del Sé grandioso. È infatti noto da tempo che il narcisismo, soprattutto nella sua forma grandiosa, tende a essere inversamente correlato ai sintomi depressivi e ansiosi: quando aumentano la tristezza, l’angoscia, il senso di inadeguatezza, lo slancio narcisistico si affievolisce. In altre parole, in molti contesti occidentali l’ego non si gonfia: si ritira, messo all’angolo da un’onda crescente di sofferenza psichica.
FOMO e narcisismo
Lo testimonierebbe anche la FOMO (fear of missing out), come mostrano vari studi europei ed italiani citati dallo stesso Angelini. In particolare uno italiano condotto su un campione di 311 giovani adulti italiani ha concluso che «la FOMO risulta il predittore più forte sia per il narcisismo grandioso che per quello vulnerabile, mentre l’ON-FOMO, la sua versione legata all’esperienza online, risulta un predittore significativo solo per il narcisismo vulnerabile».
Dunque, conclude Angelini, „forse l’uso dei social non attira più di tanto i narcisisti dalla pelle spessa (smaniosi di ricevere gratificazioni più nella vita reale che in quella virtuale), ma rischia di rendere ancora più permalosi, ipersensibili, frustrati e rabbiosi quelli dalla pelle sottile, che vedono il proprio sé sempre più minacciato“.
Con il narcisismo grandioso e quello vulnerabile si apre una questione che la psicoanalisi conosce bene.
Grandioso e vulnerabile: due narcisismi o due facce dello stesso?
Nella letteratura psicologica e psicoanalitica contemporanea si distingue tra: narcisismo grandioso (over) caratterizzato da sicurezza ostentata, senso di diritto, ricerca di ammirazione, dalla “pelle spessa” e un narcisismo vulnerabile (covert), contraddistinto da vergogna, ipersensibilità, oscillazioni dell’autostima, dalla “pelle sottile”.
Una distinzione utile nella ricerca empirica.
Ma in clinica, e ancor più in psicodinamica, sappiamo che non si tratta di due categorie indipendenti. Come diceva Kernberg, sono due poli della stessa organizzazione narcisistica, caratterizzata da un nucleo interno molto fragile e da una corazza più o meno brillante ed avvincente molto robusta, che si trovano in una costante dialettica interna, una danza continua tra espansione grandiosa e collasso vulnerabile. Il paziente che appare arrogante e sprezzante nasconde un nucleo di fragilità estrema; il soggetto ipersensibile e timoroso nasconde in sé un sé idealizzato. La grandiosità è la difesa, la vulnerabilità è la ferita.
La meta-analisi del 2024 ci dice che il narcisismo clinico rilevato soprattutto in termini di grandiosità (misurata dall’NPI) non è aumentato, anzi è leggermente diminuito.
L’esperienza quotidiana sembra dirci invece che la vulnerabilità cresce, spesso mascherandosi da iper-esposizione digitale.
Una possibile conclusione (sociologica)
Se non siamo più narcisisti, allora cosa siamo diventati?
Non siamo una società più grandiosamente narcisista. Siamo una società più fragile.
Una società più esposta allo sguardo degli altri, più bisognosa di conferme, più vulnerabile alla vergogna.
E forse, per comprendere questa vulnerabilità diffusa, dobbiamo guardare non solo alla psicologia alla psichiatria e alla psicoanalisi ma anche a ciò che sociologi e filosofi stanno raccontando della nostra epoca. In La conquista dell’infelicità, Raffaele Alberto Ventura descrive una società che produce sistematicamente frustrazione: individui chiamati a performare sempre, a mostrarsi all’altezza, a essere felici “per decreto”, e che proprio per questo costruiscono – quasi con perizia artigianale – la propria sofferenza.
Carolin Amlinger e Oliver Cathoway, in Zerstörungslust, (Piacere di distruggere) osservano il versante opposto: non la sofferenza silenziosa, ma la tentazione di far saltare tutto. Una cultura in cui la voglia di distruggere nasce come risposta a un senso di impotenza crescente, e in cui la distruttività diventa una forma distorta di agency, un modo per sentirsi vivi quando l’orizzonte si restringe.
Questi due libri, letti insieme, raccontano qualcosa che la psicometria del narcisismo non può restituire: una società che oscilla tra la depressione e la rabbia, tra l’autosvalutazione e il desiderio di rompere tutto. Non un’epidemia narcisistica, ma un’infrastruttura emotiva indebolita.
E se la clinica sa da tempo che il narcisismo realmente rilevante è sempre una miscela di grandiosità e vulnerabilità, è forse la sociologia a offrirci oggi le lenti migliori per capire il nostro tempo: un’epoca in cui i soggetti non sono più gonfiati dal proprio ego, ma compressi dalle aspettative; non più presi da fantasie di onnipotenza, ma logorati da un senso di impotenza seriale.
Se i dati ci dicono che non c’è stata un’epidemia narcisistica ma un impoverimento delle strutture di sostegno, allora la vera sfida non è psicologica ma sociale.
La fragilità non si cura con un test: si cura costruendo contesti che rendano possibile sentirsi visti senza essere esposti, riconosciuti senza essere giudicati.
Ed è forse qui che scuola, clinica e politica possono ancora dialogare.
Non per misurare l’ego, ma per riparare il tessuto che lo sostiene.
Immagine:Blue Nude IV di Henri Matisse (1952)
Suggerimento musicale: Screen, twenty one pilots