Quando il dolore trova una voce: tra un caffè in Giappone e un tasto premuto in Europa


Un silenzio troppo a lungo

Il Giappone è stato per decenni uno dei Paesi con i tassi di suicidio più elevati. Negli ultimi vent’anni, tuttavia, la curva è cambiata: il numero di suicidi è diminuito di oltre il 40%, più che in molte altre nazioni. 
La differenza non è solo statistica: è culturale. Ciò che era tabù — parlare della morte per mano propria, raccontare il dolore — ha iniziato a emergere.


 Akita: il punto di svolta


Nella prefettura di Prefettura di Akita, nel nord del Giappone, il suicidio è stato per lunghi anni al culmine delle classifiche nazionali
Le condizioni erano dure: inverni rigidi, isolamento, un’economia rurale in contrazione. E proprio lì è nata l’idea che il cambiamento potesse venire dal basso, dall’ascolto, dalla presenza.

Una porta aperta, una tazza di tè

Nel villaggio di Fujisato chō, il monaco Shun’ei Hakamata ha fondato un locale chiamato Yottetamore — “vieni, fermati un momento”.
Nessun ambulatorio, nessuna diagnosi: solo un tavolo, sedie, tè caldo, qualcuno che ascolta. Non per curare, ma per stare accanto.

L’ascolto gentile e la validazione

In quell’atmosfera semplice, entra la pratica dell’ascolto gentile, come descritta da Eugenio Borgna: ascoltare senza interpretare, senza prescrivere.
Accanto a lui sono nate altre forme di presenza civile. Due donne, ogni settimana, entrano nelle case private o nelle case di riposo. Una ha perso un figlio per suicidio; l’altra, infermiera psichiatrica, ha lasciato il suo lavoro in ospedale per ascoltare senza prescrivere. Entrano, si siedono, e attendono che l’altro parli. Non offrono soluzioni. Offrono validazione — quel primo passo della mentalizzazione che permette alla persona di dire a se stessa: ciò che provo ha senso; non sono solo, non sono sbagliato


Tecnologia come ponte, non come sostituto

Parallelamente, il proprietario di un’agenzia digitale ha creato un programma che intercetta la ricerca in internet di parole che hanno a che fare con il suicidio e propone un messaggio di aiuto e tutte le informazioni relative alle strutture cui rivolgersi. Da lì è nato nato a livello nazionale il progetto  SOS Filter rivolto a tutti gli studenti e studentesse delle scuole, un’estensione browser che intercetta ricerche disperate (“come farla finita”, “non ce la faccio più”) propone un messaggio: “Non sei solo. Qualcuno può ascoltarti.” nonché le informazioni su tutti i centri di aiuto dalla scuola, ai centri regionali, agli Ospedali
La tecnologia non sostituisce l’incontro, ma lo prepara. Diventa soglia, non barriera.

Da privato a pubblico: un impegno istituzionale

Queste esperienze, inizialmente spontanee, sono state riconosciute dalla politica locale e nazionale giapponese. La prefettura di Akita ha integrato queste pratiche nel piano “Health Akita 21”, rendendo la prevenzione del suicidio una priorità esplicita della sanità pubblica. 
Non più solo volontariato: un paradigma nuovo di comunità che cura se stessa.

 

Una cavalla in ascolto


In questa storia lontana risuona un’immagine di Čechov, nella novella Nostalgia: un vetturino, in lutto per la morte del figlio, cerca di raccontare il suo dolore ai passeggeri, ma nessuno ascolta. Alla fine, lo confida alla sua cavalla: Se tu perdessi il tuo puledro…. Quella scena non parla di follia, ma di mancanza di ascolto. Non serviva un terapeuta. Bastava che qualcuno si fermasse, e lo stesse ad ascoltare.


Una telefonata inaspettata


Una mattina, alcuni anni fa, ricevetti una telefonata inattesa. Ero a Vienna, per un corso di formazione, e non seguivo più quel paziente da tempo. Mi disse, quasi come un preambolo, che si era ricordato di una promessa fatta anni prima: che, se un giorno si fosse trovato sull’orlo di farsi del male, avrebbe provato a chiamarmi prima di fare qualsiasi altra cosa. Non per chiedere una soluzione — ma per non restare solo in quell’istante.

Aveva una pistola davanti a sé, e un telefono. Non sapeva ancora cosa fare, ma sapeva chi chiamare. In quel passaggio silenzioso tra un oggetto e l’altro — quella frazione di realtà — c’era già un senso: prima del gesto, qualcuno da contattare. Non era la fine, era un legame che stava ancora lavorando in lui.

Quella telefonata mi permise di organizzare, da lontano, un ricovero. Ma soprattutto mi insegnò qualcosa che avevo forse intuito, ma non ancora incontrato così chiaramente: nell’istante più buio, ciò che fa la differenza non è avere una soluzione, ma avere un testimone. Qualcuno di fronte al quale il dolore possa esistere. Anche solo per il tempo necessario a non trasformarsi in gesto


Qualche insegnamento per noi


Il suicidio spesso nasce non solo da un dolore, ma da un dolore non ascoltato.
La validazione — non “ti salvo”, ma “ti sto accanto” — è il primo gesto di cura davvero umano.
La tecnologia è utile se serve a connettere, non a sostituire.
Luoghi semplici (una porta aperta, un tavolo, una tazza) possono trasformarsi in infrastrutture di prevenzione che la politica può poi ampliare fino a farle diventare sistema
Una cultura che cura il legame è anche una cultura che rende possibile la speranza.

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