Viaggio dentro un’Europa che teme, chiude, calcola. E che, paradossalmente, ha bisogno di ciò che respinge.
Bruxelles, una mattina grigia
Chi lavora all’EU a Bruxelles e chi questo lavoro lo racconta, riuscendo addirittura a dargli forma di romanzo, come lo scrittore Robert Menasse, lo sa: il potere a Bruxelles non si esercita urlando, ma regolamentando. Bruxelles non cambia la storia: la amministra. Tuttavia, in alcuni giorni particolari, quando ad esempio l’Europa si prepara a discutere di migrazione, come avverrà tra pochi giorni, il 10 dicembre, la capitale comunitaria presenta una particolare vibrazione istituzionale, il suono tipico dell’Europa quando scambia un atto amministrativo per pensiero.
Mentre i funzionari preparano numeri e slide per un vertice sull’immigrazione irregolare più esattamente per l’International Conference on a Global Alliance to Counter Migrant Smuggling circola un rapporto destinato a rimbalzare per qualche ora nei corridoi ministeriali. Non è un prodotto della burocrazia comunitaria, bensì, come indicato dal Guardian, uno studio del Mixed Migration Centre, centro globale collegato al Danish Refugee Council. Il report, costruito su oltre 80.000 conversazioni condotte con migranti e più di 450 interviste realizzate con trafficanti di esseri umani negli ultimi cinque anni, dice una cosa molto semplice e molto destabilizzante: più le vie legali si restringono, più aumenta il ricorso ai trafficanti.
È una dinamica di per sé molto banale, quasi meccanica. Quando gli Stati irrigidiscono l’accesso, la domanda non scompare: passa attraverso il mercato clandestino, che invece di estinguersi si evolve. Diventa più costoso, più efficiente, più strutturato. Ogni migrante lo sa: quando la legge non ti lascia passare, paghi chi sa come farlo. Al punto che su 80.000 intervistati, più di 50.000 hanno pagato un trafficante perché nessuna via regolare era rimasta aperta. È la fotografia di un mondo così com’è, non come i governi raccontano che sia.
L’equivoco che si ripete
La politica migratoria europea degli ultimi anni si fonda su un presupposto tanto intuitivo quanto fuorviante: rendere il viaggio più difficile scoraggerà chiunque dal tentarlo. È un pensiero semplice, lineare, rassicurante e indubbiamente utile per i comizi e gli slogan elettorali. Come tutti i pensieri semplici applicati a fenomeni complessi, produce però conseguenze imprevedibili e spesso drammatiche Il rapporto del Mixed Migration Centre documenta invece le tappe e gli esiti reali di questa dinamica:
più controlli → rotte più rischiose;
più rischi → prezzi più alti;
prezzi più alti → reti criminali più forti;
reti più forti → maggiore capacità di elusione;
maggiore elusione → necessità di ulteriori controlli.
Un circuito chiuso, dunque. Una politica che rincorre i propri effetti invece delle proprie cause. Nella narrativa ufficiale, intanto, la causalità viene invertita: si sostiene che i trafficanti generino la clandestinità, quando è la clandestinità — ovvero l’assenza di canali regolari — a generare i trafficanti.
Come siamo arrivati qui: dalla solidarietà al controllo
Eppure, l’Europa non è sempre stata questa macchina concentrata sul controllo delle frontiere. Negli anni Novanta e nei primi Duemila, l’architettura delle politiche migratorie comunitarie si fondava — almeno nominalmente — su tre pilastri: protezione, solidarietà, integrazione. Il linguaggio dei trattati parlava di “responsabilità condivisa” e di “accoglienza”, come se l’Europa volesse ancora credere nella propria vocazione universalistica.
Poi, lentamente, il quadro è cambiato. Non per un singolo trauma, ma per accumulo: l’11 settembre, le crisi economiche, gli attentati in Europa, e soprattutto la cosiddetta “crisi dei rifugiati” del 2015. Ogni scossa ha aggiunto uno strato di cautela, uno di sospetto, uno di tecnicizzazione.
Il linguaggio è sempre il primo indizio: “Accoglienza” è diventata “gestione”. “Gestione” è diventata “contenimento”. La solidarietà si è ritirata, ristretta, è divenuta merce rara, che va concessa solo a chi se la merita.
Oggi l’Unione parla soprattutto di controllo delle rotte, di sradicamento delle reti criminali, di esternalizzazione delle frontiere, di rimpatri accelerati, di deterrenza come obiettivo politico.
Ecco perché un rapporto come quello del Mixed Migration Centre — che mostra la disfunzione strutturale di questo approccio — appare sempre come un corpo estraneo: la politica europea non opera più sulle cause, ma sugli effetti.
Un continente che ha smesso di pensare la migrazione come fenomeno umano e l’ha trasformata in un dossier tecnico.
Intanto, nel mondo reale, mancano lavoratori
Fuori dalle sale riunioni, nelle aziende europee, accade qualcosa che non entra mai nelle conferenze stampa: mancano lavoratori.
In modo grave, diffuso, cronico.
È difficile trovare infermieri e camerieri, muratori e tecnici informatici, addetti alla logistica e operatori dell’assistenza. Dalla Germania all’Italia, dalla Francia ai Paesi Bassi, l’Europa presenta lo stesso paradosso: mentre irrigidisce i confini, necessita sempre più della presenza di chi tiene in piedi settori ormai rifiutati dai lavoratori autoctoni. Il paradosso: il continente che alza muri è lo stesso che non ha abbastanza mani per lavorare
BOX 1 — Lavoro che manca e lavoratori che non arrivano
Europa
Quasi 400 professioni sono state identificate come carenti da almeno uno Stato membro dell’UE, con circa 38 professioni classificate come carenze diffuse in tutta l’Unione, soprattutto nei settori artigianale, sanitario e ICT.”
Fonte: Rapporto EURES sugli squilibri occupazionali, 2025. https://integrazionemigranti.gov.it/it-it/Ricerca-news/Dettaglio-news/id/3245/Carenza-di-personale-in-Europa-il-mercato-del-lavoro-si-sta-restringendo?utm_source=chatgpt.com
Oltre un quarto delle imprese europee segnala difficoltà nel reperire personale qualificato, confermando che la carenza di manodopera è un fenomeno radicato in molti Stati membri. (Stessa fonte)
Oltre metà dei nuovi occupati dal 2019 al 2024 è extra-UE
CaixaBank Research – Changing European Labour Market and the Role of Migration (2025), basato su dati Eurostat ed Eurofound
Italia
Secondo Confartigianato, nel 2023 le imprese italiane hanno indicato difficoltà nel reperire personale per circa 2.484.690 posizioni, pari al 45,1% del fabbisogno complessivo. Circa 270.000 lavoratori introvabili al mese”. Il governo italiano ha previsto 500.000 ingressi extra-UE tra il 2026–2028.
Fonte: Unioncamere/ANPAL, luglio 2025.
Quando la geopolitica bussa alla porta: la pressione degli Stati Uniti
A complicare ulteriormente il quadro, arriva un documento da Washington. La nuova Strategia di Sicurezza Nazionale dell’amministrazione Trump descrive l’Europa come un continente “a rischio di cancellazione civile” a causa dell’immigrazione e della demografia. È un linguaggio che riecheggia direttamente la “Great Replacement Theory”, trasformata qui in analisi geopolitica.
Il documento invita gli Stati Uniti a sostenere — esplicitamente — le forze politiche europee che promuovono la chiusura dei confini.
Non si tratta di una nota a margine: è un nuovo livello della questione, in cui la narrativa identitaria europea riceve una legittimazione esterna.
BOX 2 — Perché la “sostituzione etnica” non regge
1. Le proiezioni Eurostat non mostrano alcun rimpiazzo demografico.
2. I cittadini extra-UE sono il 6–7% della forza lavoro europea.
3. La vera dinamica è l’invecchiamento, non la crescita sproporzionata delle minoranze.
4. La teoria è uno strumento politico, non un’evidenza statistica.
La nemesi che nessuno vede arrivare
C’è un punto cieco che il dibattito europeo evita di affrontare: una politica costruita sul rifiuto produce sentimenti, non solo statistiche.
Il primo sentimento è quello di chi resta fuori.
Uomini e donne che immaginano l’Europa come un continente di diritti e possibilità, e che si scontrano invece con un sistema di respingimenti, accordi esternalizzati e frontiere chiuse. Questo genera risentimento, non aspirazioni frustrate: una percezione di esclusione che non si esaurisce alla frontiera, ma si accumula.
Il secondo sentimento è più sottile, e forse più corrosivo: riguarda chi, nonostante tutto, ce l’ha fatta ad entrare.
I migranti che lavorano, vivono, pagano affitti e tasse, scoprono presto una contraddizione strutturale: sono necessari per l’economia europea ma non per la sua narrazione identitaria. Sono accettati come funzione, non come presenza. Anche se vengono ben accolti come braccia, non sempre i migranti vengono accettati come esseri umani
Il risultato è una forma di disillusione che può trasformarsi in desiderio di rivalsa: non solo perché chi arriva porta con sé l’ostilità derivante suoi traumi subiti prima e durante la migrazione, ma perché l’ostilità viene prodotta anche qui, come conseguenza del trattamento ricevuto.
È una nemesi storica: nel tentativo di evitare conflitti futuri, l’Europa rischia di crearli. Non per “sostituzione etnica”, ma per sostituzione valoriale: respingendo l’integrazione, tradisce la propria cultura politica e si ritrova con un’identità svuotata, difensiva, capace di generare contrapposizione invece che convivenza.
Il pericolo non è che l’Europa venga trasformata dall’esterno. Il pericolo è che si trasformi dall’interno, attraverso la paura.
Arendt: la lente che resta
Arriviamo così a una coincidenza che non ha il sapore della commemorazione, ma quello dell’illuminazione: il 4 dicembre ricorrono cinquant’anni dalla morte di Hannah Arendt.
Arendt non si occupò di immigrazione, ma del modo in cui gli Stati prendono decisioni quando smettono di pensare. La “banalità del male” è un concetto spesso frainteso: non riguarda la crudeltà intenzionale, ma la deriva amministrativa. Il male che nasce quando ci si limita a eseguire, quando il linguaggio tecnico sostituisce il giudizio, quando la procedura prende il posto della politica.
Le politiche migratorie europee, lette con questa lente, assumono una chiarezza nuova: non sono figlie di ostilità deliberata, ma di un dispositivo istituzionale che scambia la gestione per la soluzione, l’urgenza per la strategia, la deterrenza per la comprensione.
Arendt ci ricorderebbe forse che una democrazia non collassa per un singolo atto malvagio , ma per una serie di micro-decisioni che, sommate, producono effetti sproporzionati rispetto alle intenzioni.
È esattamente ciò che sta accadendo.
Conclusione: dove ricominciare
Non vedo scorciatoie, formule semplici.
Ma esiste una direzione: riconoscere che la migrazione non è un’eccezione da contenere, bensì una componente strutturale della nostra storia, presente e futura.
Riconoscere che il mercato dei trafficanti non si sconfigge irrigidendo i confini, ma rendendolo inutile attraverso vie legali efficaci.
Riconoscere che la sicurezza non nasce dalla chiusura, ma dalla coesione.
Riconoscere, soprattutto, che una politica che non pensa i propri effetti genera prima o poi la propria nemesi.
Nel cinquantesimo anniversario della morte di Hannah Arendt, vale forse la pena ricordare un punto essenziale del suo pensiero: non è il male radicale a mettere in crisi una democrazia, ma l’incapacità di interrogarsi su ciò che sta facendo.
L’Europa non affronta un “invasore”, ma la propria difficoltà a pensare.
Se vogliamo uscire dall’impasse, dobbiamo iniziare da qui.