“Siamo coscientemente confusi e inconsciamente controllati”. Queste parole, che riassumono brillantemente il determinismo psichico di Freud, sono quanto mai attuali anche a distanza di oltre cento anni. In ogni ambito, nella nostra vita quotidiana, privata e professionale, di cui un’ingannevole mutevolezza sembra essere la cifra, sulla scena politica nazionale, in cui non si capisce se si stia recitando Pirandello o una tragica farsa, nella abbagliante complessità di un mondo che sembra conoscere sempre di più ma comprendere sempre meno come rassicurare l’individuo e alleviarne paure e sofferenze.
Di fronte a un senso così perturbante e perfino minaccioso di condizionamento ed impotenza possiamo accusare qualcuno o qualcosa (che sia la globalizzazione, il capitalismo, il 68, i poteri forti, gli immigrati, l’élite). Oppure possiamo chiederci perché, oltre a e prima ancora di essere indotti dagli altri in errore, percepiamo noi il mondo così erroneamente da commettere sbagli madornali nel nostro giudizio e conseguentemente nelle nostre azioni.
È quanto fa Bobby Daffy (Director of The Policy Institute at King’s College London and former Chairman of Ipsos MORI Social Research Institute) nel suo The perils of perception, che recita emblematicamente nel sottotitolo “Why we’re wrong about nearly everything”. L’autore ci prende per mano con affabile humor e, partendo da esempi concreti, ci dimostra, sulla base di quasi centomila interviste ed indagini condotte in 40 nazioni, quanto la nostra percezione sia erronea e quanto sia influenzata da fattori emozionali, sociologici e di altra natura. Ad esempio dalla presenza nella stanza dell’esperimento di diversi attori che d’intesa con il ricercatore danno una risposta sbagliata a una domanda semplice. Quale delle tre linee nell’immagine che vedete in alto a destra è sovrapponibile alla linea dell’immagine in alto a sinistra? Ebbene quasi un terzo di noi si lasciano influenzare dagli attori e danno la risposta sbagliata. Ciascuno di noi penserà ora che lui non si lascerebbe fregare. Il problema è che tutti pensiamo di essere meglio degli altri. E ne siamo così convinti da credere ad esempio che, a parità di peso, noi siamo meno obesi degli altri e che gli altri mangiano più zucchero di noi. Gli esempi nel libro non mancano e alcuni relativi alla differenza tra percentuale reale e percentuale percepita di migranti nei paesi europei erano già stati anticipati nelle scorse settimane dai quotidiani (In Italia a fronte di una percentuale di migranti che non arriva al 10% abbiamo la percezione che sia il 40%).
Il pregio del godibilissimo saggio consiste però principalmente nel fatto che non si chiede solo e tanto quanto gli errori di percezione dipendano dall’influenza altrui (What we’re told) ma mette soprattutto l’accento sul nostro modo di pensare (How we think) erroneamente e sul perché pensiamo così. L’obiettivo dello studio non è tanto, per esplicita ammissione dell’autore, sradicare l’ignoranza (intesa come non sapere) bensì scoprire e mostrare le percezioni errate (disperceptions). Queste ultime non possono infatti venire eliminate semplicemente fornendo maggiori informazioni agli individui come essi fossero vasi vuoti (Platone docet). Anche perché nel caso delle percezioni errate, i portatori delle stesse si sentono nella maggior parte dei casi tutt’altro che ignoranti ma invece ben informati al punto da sostenere le loro dispercezioni con un grado di convincimento che rasenta la certezza (Nyhan). Daffy, con ben temperato empirismo inglese, riconosce ampiamente la vastità dei nostri errori e l’influenza di fattori emozionali nei meccanismi di errata percezione ma non dispera:
Understanding the real reasons we are wrong gives us a better chance to shift our misperceptions, individually and collectively.
It’s not all hopeless, in at least two ways: the world it is not as bad as we think and it’s often getting better; and we’re not completely enslaved by our wrongful thinking as it sometimes seems we are – we do change our minds, and facts still matter in that.
Queste parole di cauto ottimismo spero possano essere anche d’auspicio per un imminente convegno dedicato proprio al tema della coscienza tra libertà e condizionamento. Che è poi un altro modo, più psicoterapeutico ma anche umanistico, di riflettere su possibilità e limiti di essere e diventare noi stessi. Di superare i condizionamenti che la vita e noi stessi ci poniamo e di cambiare all’interno di un rapporto, umano e terapeutico. A questa riflessione saranno successivamente chiamati, con un concorso letterario anche ragazzi e ragazze delle scuole medie superiori. Chi meglio di loro può darci la motivazione per mettere continuamente in discussione le nostre percezioni e chi meglio di noi può loro dimostrare che ci sbagliamo su quasi tutto?