“Lungo tempo” è il titolo originale del film cinese “So long, my son” premiato a Berlino lo scorso febbraio (con due orsi d’argento per il miglior attore e la migliore attrice). Un (lungo) capolavoro di cinematografia e di psicologia che consiglio a tutti/e di vedere. Per capire quanto possa succedere nella vita quando sembra che non possa succedere più nulla. “Il tempo si è fermato ormai da molto. Il resto è solo attesa della vecchiaia.” si dicono amaramente i due protagonisti, marito e moglie cinesi, che, già vittime, come tanti altri, delle persecuzioni e delle ingiustizie del regime comunista negli anni 80, si trasferiscono in provincia per dimenticare ed essere dimenticati e subiscono qui una tragedia che non si può dimenticare. Il loro unico figlio, giocando sulle rive del lago con altri bambini, tra cui il figlio dei loro migliori amici, annega. Sembra la fine della loro vita, dell’amicizia, di ogni rapporto sociale. Anche perché la madre, a seguito della politica del figlio unico allora imposta dal partito, è stata costretta ad abortire dalla direttrice della fabbrica che era anche la sua migliore amica, e in seguito a complicazioni di quell’aborto non può più avere figli. Eppure… la storia continua e al regista riesce felicemente di intrecciare quella personale con quella familiare e collettiva in una continua alternanza tra presente e passato. Un altro figlio viene adottato e poi se ne va, un amore nasce e si interrompe, un’altra morte provoca un nuovo incontro, una confessione consente di portare a termine il racconto, con sobrietà, pudore e straordinaria efficacia. Sono il tempo e la pazienza di lasciarlo scorrere che danno senso agli eventi o forse consentono a noi di ordinare i nostri vissuti così da attribuire nuovo senso agli eventi stessi.
Non succede solo in So long, my son, anche nelle nostre vite. Quando cominciamo una terapia è spesso perché un avvenimento, una malattia, magari anche un fatto apparentemente di poco conto sembra aver privato di senso parte della nostra vita o addirittura la vita stessa. La trama della nostra esistenza ci appare lacerata, non riusciamo a prendere congedo da una persona, una situazione, una condizione oppure ci angoscia un cambiamento che si sta producendo in noi e che rischia di trasformare il nostro futuro. Cerchiamo allora aiuto nella terapia. Dichiariamo a noi stessi e al/lla terapeuta la nostra più completa disponibilità al cambiamento ma in realtà vogliamo che il/la terapeuta ci prenda per mano e ci rassicuri che tutto tornerà come prima, come quando noi stavamo bene, con la persona amata, in buona salute, ed un lavoro che funzionava. Accettare il cambiamento, per di più improvviso e non voluto è difficile. È solo con il tempo e la fiducia che accettiamo di lasciarci andare su quella poltrona/lettino, di lasciar vagare i nostri pensieri e di avere un po’ meno paura dei mostri sentimenti. Le resistenze sono tante e i miti imperanti dell’efficienza e della rapidità le rinforzano. Quando poi abbiamo cominciato ad accettare la nuova situazione, ci rendiamo progressivamente conto che siamo stati noi ad esserle andati incontro, scegliendo quello che più ci attira e ci impaurisce, rimettendo perennemente in atto i nostri schemi, reagendo agli imprevisti con reazioni assai prevedibili. Spaventati dalla situazione, angosciati dalla nostra impotenza, ci dibattiamo come un animale in trappola, agendo i nostri impulsi, fuggendo dalle nostre paure. Intanto la vita procede. Spesso, sostenuti e incoraggiati dalla terapia, aiutati da un accadimento magari banale o da un incontro, troviamo il coraggio di fermarci. Guardando indietro al nostro passato, non scorgiamo più solo il cumulo di macerie che vedevamo prima e un sentiero verso il futuro ci appare possibile. Proviamo a percorrerlo e, pur scivolando e cadendo, lo facciamo nostro. Oggi possiamo per fortuna sconfiggere i sintomi ansiosi, depressivi anche psicotici in tempi relativamente brevi ma il tempo che trascorre dall’inizio della terapia fino al momento in cui riusciamo a guardare con altri occhi a noi stessi e al mondo circostante, ritrovando un senso che sembrava smarrito, è spesso lungo. Prendendo in prestito il concetto braudeliano di “lunga durata” si potrebbe affermare che anche la psicoterapia, come la storia, (e la vita) va affrontata e valutata sulla lunga durata. Capisco che questa mia idea possa forse apparire bislacca e sia poco incoraggiante per chi inizia una terapia. Eppure, come Braudel fa per la storia, anche nella terapia si possono individuare anche altri tempi, più brevi: l’avvenimento ovvero il momento in cui la crisi manifestamente scoppia e soggettivamente si risolve. E soprattutto il medio periodo quello in cui cioè i sintomi progressivamente compaiono e progressivamente scompaiono. Forse proprio queste distinzioni, prese a prestito dalla storiografia degli Annales, consentirebbero di evitare tanti malintesi nell’accostarsi alla terapia. Di fronte ad una “crisi” psichica è opportuno e doveroso avere a disposizione in tempi brevi un adeguato supporto medico psicologico o psichiatrico ed è legittimo attendersi la risoluzione o almeno il miglioramento dei sintomi in tempi relativamente brevi. Credo sia però corretto valutare il ritrovamento di sé stessi o meglio dei nuovi sé stessi dopo la crisi e dopo la terapia sulla lunga durata. Lo mostra bene questo film della fluviale durata di 180 minuti. Sono quelli che servono per ritrarre il percorso di due persone che, pur provate, sconfitte e disperate, non smettono mai di ascoltare sé stessi e gli altri, di riflettere e di cercare, di lottare con tenacia contro l’assurdità del vivere. Come scriveva Camus nei suoi saggi “Accettare l’assurdità di tutto ciò che ci circonda è un [primo] passo, un’esperienza necessaria: non dovrebbe diventare un vicolo cieco. Suscita una rivolta che può diventare feconda.”
Suggerimento musicale Auld Lang Syne