Digitale è partecipazione

„La libertà è partecipazione“ cantava il grande Gaber e il digitale, ci ripetiamo, è partecipativo. Ma come si attua la partecipazione?
Prendiamo il recente caso della scuola romana accusata di classismo perché nella sua auto presentazione si leggeva (fonte Corriere «La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana». «Il plesso sulla via Cortina d’Ampezzo accoglie prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti, e simili)».
Sul fatto che l’autore di queste righe non sia dotato di talento né giornalistico né psicologico non bisogna neppure discutere. La domanda è se questa sia la descrizione (maldestra) di un dato di fatto o una più o meno esplicita evidenza di classismo. In realtà la domanda sui social, ma anche sui media tradizionali, non è stata nemmeno posta. Subito è stata data la risposta: è uno scandalo, è classismo, segregazione per censo, vergogna, anzi “VERGOGNA” scrive Lapo Elkann La preside va cacciata, bisogna impartirle almeno una dura reprimenda scrivono i più moderati. Il Manifesto  dedica alla vicenda la prima pagina del 16 gennaio e non ha dubbi “A Roma l’Istituto comprensivo del Trionfale separa gli alunni per classi sociali. La bufera anti «apartheid» costringe la scuola alla retromarcia”. Quelli che avessero voluto proprio far le pulci alla notizia avrebbero, con grande sforzo s’intende, scoperto che “scandali” analoghi erano già scoppiati, ad esempio al Liceo Visconti di Roma e al Liceo Arnaldo di Brescia e che in questi due casi non si trattava nemmeno di un auto presentazione delle scuole ma del rapporto di autovalutazione che ogni scuola è tenuta per conto del Ministero della Pubblica Istruzione a redigere e pubblicare nel sito “scuola in chiaro” che si trova sullo stesso sito ministeriale. Il sito “scuola in chiaro” serve proprio a illustrare, secondo uno schema omogeneo cui tutte le scuole si devono attenere, le caratteristiche della scuola stessa, il RAV (rapporto di autovalutazione) e la sua offerta formativa (POF, piano offerta formativa). In una delle prime sezioni del RAV viene appunto richiesto alla scuola di descrivere in base a domande guida dello stesso Ministero il contesto (sociale, economico e culturale) della scuola stessa. Stiamo parlando di documenti che superano ampiamente le 50 pagine arrivando fino a 100 pagine, nelle quali la sezione “contesto” è marginale e dunque liquidata in poche righe, mentre l’attenzione è ovviamente centrata sull’offerta formativa della scuola stessa. Tutto questo sforzo, oltre a favorire la riflessione del corpo docente sulla scuola, dovrebbe consentire ai genitori di conoscere le scuole, confrontarle e scegliere quella che ritengono essere migliore per i figli/e.
Tutte le informazioni sulla scuola, che non violino la legge e la privacy, sono, a mio avviso, benvenute. Se ci sono dei genitori così sprovveduti, per non dire altro, da scegliere la scuola sulla base del ceto delle famiglie anziché sull’offerta formativa della scuola fanno purtroppo solo il male dei loro figli/e. L’evidenza scientifica e l’esperienza personale dimostrano che è proprio dalla disomogeneità di ceto, cultura, approccio che si raggiungono i migliori risultati in termini di insegnamento e maturità. Se i genitori si ostinano a credere che la terra della cultura sia piatta, non si può convincerli per legge che è rotonda, si può solo sperare che il loro appiattimento mentale acquisti spessore per figli/e grazie ad una scuola, qualunque essa sia.
Ma cosa dire dell’appiattimento (dei mass media e) dei social media, dunque di tutti noi che vi scriviamo? Ripetere il mantra che Internet ci rende stupidi e i social sono una cloaca non mi sembra proprio il modo più geniale per sfuggire all’appiattimento. Anche le accuse reciproche di superficialità, trascuratezza, tra giornalisti della carta stampata e del web non credo possa essere annoverata tra le migliori pagine della riflessione giornalistica.
Penso sia necessario riflettere ancora una volta sulle emozioni consce e inconsce che muovono i social media. A ben guardare sono sempre le stesse: vergogna (nel senso di svergognare l’altro), rabbia, risentimento o un misto delle stesse. Da una parte sono indispensabili perché senza questi sentimenti arcaici non c’è dinamica sociale e dunque neanche interazione su social. Dall’altra parte tali emozioni sono talmente forti e radicali da travolgere spesso anche ogni approfondimento e ogni riflessione critica. È come se protestassimo ancora con le pietre e i forconi della rabbia e dello svergognamento
pur trovandoci al tempo post moderno del digitale, in cui bastano pochi click per realizzare cambiamenti significativi. È certo doverosa la trasparenza dei documenti delle istituzioni democratiche e la correzione di testi discutibili. Ma cosa ha prodotto alla fin fine “La bufera anti «apartheid» “? La frettolosa cancellazione di poche righe in un documento che la maggior parte delle persone non ha neppure letto né più si curerà di leggere. Di per sé sarebbe stata molto più efficace segnalare che il testo si prestava a equivoci, formulare una breve proposta di correzione in uno spirito costruttivo per cambiare in meglio il documento stesso. Risulta a questo punto evidente che il maggiore beneficio per quelli che hanno partecipato alla polemica è di carattere emozionale. Chi ha gridato al classismo, indipendentemente dal fatto che abbia letto e analizzato con passione il testo, l’abbia interpretato a proprio piacere, o non l’abbia nemmeno guardato, si è sentito per un momento un eroe sulle barricate della giustizia, il salvatore/la salvatrice della democrazia. Così come mi sono sentito io altre volte sul tema dei migranti. Chi siano i veri eroi lo sappiamo in realtà tutti.
D’altro canto è proprio su questo bisogno di dire la propria su tutto e di (illudersi di) cambiare la realtà che prosperano i social. Sappiamo però anche che il cambiamento riesce veramente solo se vicende come queste ci portano alla consapevolezza della nostra ignoranza anziché alla dimostrazione della nostra arroganza o aggressività. È straordinario che ciascuno di noi oggi possa accedere ai documenti che regolano la vita sociale, in questo caso la formazione dei nostri figli e così conoscere gli strumenti che i docenti si sono dati per coordinare e valutare il loro lavoro formativo. In un mondo digitale partecipativo, dopo aver letto quei documenti, non c’è bisogno, nella maggior parte dei casi almeno, che scendiamo in strada con i forconi. Possiamo formulare da casa proposte di correzione e miglioramento in uno spirito collaborativo nell’interesse nostro e di tutta la società. È come se ancora non ci credessimo e continuassimo a pensare e soprattutto a sentire che dobbiamo mettere paura all’ipotetico nemico, svalutarlo, denigrarlo ed esaltare noi stessi per sentirci forti. In realtà la nostra forza è la conoscenza, anzi, come sempre, la consapevolezza della nostra ignoranza.
suggerimento musicale: Giorgio Gaber La Libertà