Come sarebbe una vita politica che comprenda l’idea che le persone potrebbero non sapere cosa vogliono, perché potrebbero non sapere cosa provano? si chiede Manos Tsakiris nel suo interessantissimo articolo su aeon. In realtà sappiamo da tempo immemorabile di non sapere, non sappiamo né cosa vogliamo politicamente e neppure cosa vogliamo in assoluto. (Giuditta o Giovanna? Mario o Andrea? Giuditta, Giovanna e Genoveffa? Mario, Andrea e Giovanna? sesso e/o amore e/o famiglia? Libertà o legami? Sicurezza o realizzazione personale?) Sappiamo anche da tempo che non riusciamo spesso a riconoscere correttamente e a comprendere i sentimenti che proviamo. Tsakiris constata che le emozioni svolgono al tempo attuale un ruolo decisivo nelle nostre decisioni politiche – tanto da parlare di emocrazia – ma che al tempo stesso non sappiamo esattamente riconoscerle. Veniamo perciò facilmente influenzati dalle etichette interpretative che altri (politici, intellettuali, mass e social media) mettono sulle nostre emozioni. Un indifferenziato stato di tensione può essere percepito come paura o rabbia a seconda del contesto (politico, culturale, economico, sociale) e della nostra suscettibilità ai messaggi che da tale contesto ci vengono inviati (le ong sono i taxi del mare o meritevoli organizzazioni che salvano disperati dalla morte in mare? ci dobbiamo sentire in colpa o dobbiamo reagire aggressivamente?). Le emozioni sono indubbiamente preziose informazioni che provengono dal nostro corpo e ci dicono lo stato in cui si trova e quello in cui si verrà probabilmente a trovare di lì a poco sulla base degli stimoli cui siamo soggetti. Per scappare al più presto da un pericolo abbiamo bisogno di un’emozione immediata di paura non di un discorso razionale lungo e complicato in cui il pericolo viene spiegato in tutti i suoi dettagli. Le emozioni possono però, come sostiene Tsakiris, venire mal interpretate. Sono inoltre spesso fallaci o illusorie inducendoci ad esempio a sovrastimare il pericolo (gli sbarchi dei migranti sono un’invasione straniera) o a sottostimarlo (il Covid è una banale influenza). Le emozioni infine non si lasciano facilmente tradurre in coerenti azioni collettive soprattutto se abbiamo a che fare, come accade nella maggioranza dei casi, con situazioni sociali complesse. Basti pensare alla difficoltà che l’attuale movimento di protesta black lives matters incontra per trasformare in miglioramento concreto delle condizioni di vita sociale la rabbia dei neri americani.
È dunque innanzitutto necessario che sviluppiamo e miglioriamo la nostra capacità di interpretare esattamente le nostre emozioni (quella che Tsakiris chiama interoception) per comprendere quello che i nostri corpi, sottoposti ad una pressione sempre maggiore dall’insicurezza attuale, vivono. Può apparire strano, quasi bizzarro, ma soprattutto quando siamo sull’orlo di una crisi, spesso non comprendiamo cosa ci succede. Molte persone, soprattutto uomini, mi descrivono magari con una certa pignoleria, la tensione muscolare, le difficoltà respiratorie, i disturbi digestivi, la sudorazione, l’apatia, la stanchezza di cui soffrono ma faticano a dare un nome alle loro emozioni. Per definirle utilizzano spesso le etichette più in voga del momento: burnout, depressione, attacchi di panico in un singolare gioco di ruolo tale per cui è il paziente a porre/proporre la diagnosi e io a chiedergli cosa prova. Proprio per questo è altrettanto necessario, a mio avviso, confrontare e integrare le informazioni che provengono dalle emozioni con quelle che ci giungono dalla razionalità in modo da giungere ad una comprensione il più possibile completa di noi stessi e della nostra situazione esistenziale. Se riflettiamo, veniamo indotti a riflettere, su cosa proviamo senza aver la (comprensibile) fretta di mettervi la prima etichetta che ci viene fornita e ci chiediamo (ci viene chiesto) cosa stiamo vivendo al di là dei soprusi del nostro capo – che per carità ci saranno anche ma non costituiscono generalmente l’unico nostro orizzonte di vita- otteniamo preziose informazioni dalle nostre emozioni e dalla nostra capacità di analisi, limitando dunque le illusioni e le fallacie delle emozioni e di un pensiero che è solo pseudo razionale.
Le emozioni vengono espresse oggi in modo molto più aperto e marcato che in passato il ché è senz’altro positivo nel senso che dimostra una nostra maggiore apertura e capacità di espressione dei propri stati interiori. Il rischio è tuttavia quello di esprimere le emozioni ancor prima di averle percepite e soprattutto comprese, onlife. È classico il caso (offline) delle emozioni “da stadio” una situazione in cui una generica tensione (fatta di frustrazioni, rivalità, paura, rabbia, etc) viene facilmente trasformata in univoca ostilità nei confronti delle tifoserie avverse. A livello online un fenomeno altrettanto conosciuto è quello del mobbing, dell’insulto generalizzato o dell’istigazione all’odio. Anche in questo caso una confusa tensione interiore, costituita da tanti sentimenti, anziché venire percepita e analizzata nella propria interiorità viene agita e si trasforma così in un fenomeno di contagio emotivo dai risultati talvolta drammatici. Vi sono però anche forme più raffinate e apparentemente razionali di contagio emotivo non meno inconsapevoli. Quando vengono espressi in modo impulsivo e quasi coercitivo sui social sdegno, indignazione per un comportamento obiettivamente riprovevole (un’ingiustizia, un privilegio un arbitrio eccetera) che non ci riguarda da vicino può scattare un analogo meccanismo di contagio. Tutti gridiamo allo scandalo senza peraltro voler approfondire le circostanze che a quella situazione hanno portato. Insomma uno sdegno di facciata, che dà sfogo alla nostra tensione e ci consente anche di fare bella figura con poca spesa. In realtà non appena la tanto sbandierata indignazione viene sottoposta, com’é giusto che sia, ad una analisi critica, rivela la sua vera natura e si dimostra per quello che è, un contagio emotivo camuffato da nobile desiderio di giustizia. Solo se le emozioni reggono il confronto con la capacità razionale e critica, è possibile il passaggio alla fase successiva quella cioè di organizzare costruttivamente quelle stesse emozioni in azione sociale e politica. Come disse Martin Luther King: ‘It is not enough for people to be angry – the supreme task is to organise and unite people so that their anger becomes a transforming force’
immagine tratta da @IrenaBuzarewicz