È più importante fare o comunicare? A me viene in mente il „fare“ di mio padre, medico condotto d’altri tempi, per il quale il massimo della comunicazione, al di fuori di quella volentieri praticata all’interno del rapporto medico paziente, consisteva nell’affiggere 3 volte all‘anno un foglio sulla porta di casa con il numero di telefono (naturalmente senza nominativo) degli amici da cui era invitato per essere raggiungibile dai pazienti anche in quei pranzi domenicali mentre per gli altri 362 giorni dell’anno semplicemente faceva (il medico). La risposta mi sembrerebbe dunque scontata. Mi è però venuto più di un dubbio dopo aver letto il recente post di Luca De Biase che si domandava perché si parli così poco di buoni esempi di fare, „qual è il problema che ci fa conoscere tanto più probabilmente i disastri della nostra società, mentre queste conquiste vivono sottotraccia?“ Si rispondeva tra l‘altro che „chi si occupa di servire la società, di solito, è impegnato a farlo e non pensa di doverlo far sapere. Invece, questo sarebbe un ulteriore servizio alla società, che scoprirebbe così di non essere bacata come sembra e neppure di essere condannata al declino come si teme.“ Una paziente mi ha (involontariamente) suggerito un ulteriore sviluppo. I medici italiani e spagnoli – mi diceva la paziente – „comunícano“ molto, mentre quelli svizzeri non dicono quasi niente. Soggiungeva però che quando si trova in Spagna ha paura perché a suo giudizio il sistema sanitario spagnolo ha molte pecche ragion per cui continua a vivere in Svizzera dove il sistema sanitario funziona, a suo parere, perfettamente, anche se i medici „non parlano“. Al di là delle generalizzazioni e semplificazioni relative a mentalità e sistemi sanitari latini e mitteleuropei, l’osservazione della paziente mi sembra quanto mai calzante. Con alcune precisazioni. Quella di cui parla la paziente è la comunicazione all’interno del rapporto medico paziente mentre quella di cui stiamo parlando qui è la comunicazione che consente di informare la società su quanto alcuni suoi servizi fanno. Il “fare“ soprattutto in ambito di servizi, a maggior ragione sanitari (ad es. cura di un disturbo, alleviamento di una sofferenza, un disagio) da tradizionalmente per scontato che la comunicazione nasca più o meno spontaneamente dalla soddisfazione o meno dei pazienti. Comunicare il fare è, in quest’ottica, esigenza successiva, spesso associata, a torto o a ragione, al desiderio narcisistico di riconoscimento di chi ha fatto che non si accontenterebbe del ritrovato benessere del paziente ma vorrebbe pure la lode pubblica. Naturalmente da questa antica mentalità del fare, le cose si sono nel frattempo molto evolute e anche la comunicazione, nella società della comunicazione, ha trovato spazi autonomi
in una cultura che fa/dovrebbe fare dello scambio aperto d’informazioni, dati e risultati la sua cifra. Appunto perché far sapere quello che si fa è “un ulteriore servizio alla società”. Incombe però sempre su questo tipo di comunicazione il pericolo della retorica. Da un lato di una retorica dell’efficienza e perfezione così perfette da non trasmettere nessuna emozione al paziente. Non c’è niente di più noioso delle auto-descrizioni delle cliniche, dei servizi e dei sistemi sanitari svizzeri, fatto salvo, s’intende, l’orario ferroviario svizzero. Dall’altro della retorica (molto spesso italiana) delle (buone) intenzioni ed emozioni, così sottolineate e calcate da indurre a chiedersi se in un simile bagno d’emozioni sia possibile svolgere qualsivoglia azione, per di più terapeutica. Ma anche il pericolo della retorica burocratica, narcisistica etc.
Le parole di Anna Deavere Smith, riportate da Maria Popova che mettono in guardia sul pericolo del linguaggio come fiction e come maschera, mi sembrano quanto mai significative al riguardo
„The creation of language is the creation of a fiction. The minute we speak we are in that fiction. It’s a fiction designed, we hope, to reveal a truth. There is no “pure” language. The only “pure language” is the initial sounds of a baby. All of us lose that purity, and as we get more “of” the world, we even lose sometimes the capacity to keep that breath moving in our language…. Our ability to create reality, by creating fictions with language, should not be abused. The abuse is called lying….To abuse language, to lie, is to fray reality, to tatter it.“
E ancora
„Some people use language as a mask. And some want to create designed language that appears to reveal them but does not.“
Cosa fare allora? Oltre all’ovvio invito all’autenticità nel parlare, le parole di Anna Deavere Smith sono un invito all’ascolto, a mettersi nelle parole, così come nei panni, dell’interlocutore per cogliere, al di là del contenuto, quello che è detto/scritto tra le righe, le architetture ritmiche, la musica personale di chi parla/scrive, dalla quale vengono spesso molte più informazioni di quelle esplicitamente espresse.
Immagine tratta da @IrenaBuzarewicz