Quando la cautela (eccessiva) e gli allarmismi possono essere fatali. Mi sembra sia passata sotto silenzio mediatico (impressione soggettiva? cosa è rumore e cosa silenzio mediatico?) la notizia dello studio pubblicato dall’autorevole BMJ, relativo al nesso tra calo del consumo di antidepressivi tra adolescenti e giovani USA e aumento dei casi di tentato suicidio tra gli stessi. Secondo questa ampia ricerca quasi sperimentale infatti, cui hanno partecipato molteplici centri di ricerca e organizzazioni sanitarie statunitensi, le (eccessive?) avvertenze della US Food and Drug Administration (l’agenzia USA di controllo di alimenti e farmaci) circa il potenziale rischio di suicidio connesso, in adolescenti e giovani adulti, all’assunzione di farmaci antidepressivi e la campagna mediatica che ne è risultata hanno determinato un drastico calo di consumo degli stessi farmaci, cosa che avrebbe a sua volta provocato un aumento dei tentati suicidi nelle stesse categorie a rischio -appunto adolescenti e giovani adulti. Insomma le precauzioni, gli avvertimenti e la diffusione mediatica (comprensibilmente allarmata e meno ragionevolmente allarmistica) hanno provocato l’effetto opposto a quello che volevano ottenere: i tentati suicidi di adolescenti e giovani adulti in USA – dove il suicidio era nel 2007 la 3 causa di morte nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni! – sono aumentati, anziché diminuire.
Che cautela ed eccessiva prudenza possano far anche danni lo sappiamo tutti dalla nostra vita quotidiana. “Il medico pietoso fa il malato gangrenoso” si ammoniva ancora ai tempi in cui la radicalità dell’amputazione era l’unico mezzo per salvare il paziente con necrosi ad un arto da morte certa. La vicenda dell’aviaria ha dimostrato ampiamente che l’eccesso di precauzioni può essere un bene per i bilanci delle case farmaceutiche, non sempre però per quelli di stati e cittadini. Ma nel caso di cui stiamo parlando, si tratta di vite, anzi di vite a rischio di giovani, di ragazzi e ragazze. Vale quindi la pena di ripercorrere più da vicino le tappe di questa quanto mai attuale vicenda, psichiatrico-sanitaria e mass-mediatica insieme.
Che inizia con un’ammirevole riflessione sui risultati di uno studio scientifico, anzi di una meta-analisi (un’analisi comparata e riassuntiva cioè di molti studi). Una meta-analisi aveva infatti evidenziato un rischio relativo di comportamento suicidiario e ideazione suicidiaria negli adolescenti (10-17 anni) trattati con antidepressivi. Da notare che la maggior parte di eventi negativi “adverse events” riportati dalla meta-analisi era costituita non da suicidi condotti a termine o tentati suicidi ma da ideazione suicidiaria (pensieri di suicidio, non necessariamente intenzioni né tanto meno gesti). Ciò nonostante la FDA, con ammirevole cautela, ha emanato tra il 2003 e il 2004 numerosi avvertimenti che bambini e adolescenti in trattamento con antidepressivi avrebbero presentato un aumentato rischio di suicidalità (ideazione e comportamento suicidiario). Nell’ottobre del 2004 la FDA ha richiesto che un avvertenza (“boxed warning”) venisse posta sulla confezione di tutti i farmaci antidepressivi. Nel maggio del 2007 l’avvertimento è stato esteso ai giovani adulti (18-29 anni). Logica e doverosa la diffusione mediatica nonché via SN della notizia, che ha poi assunto i toni tra l’allarmato e l’allarmistico che è facile immaginare (il NYT! titolava nel settembre 2004 “FDA links drugs to being suicidal”) Va per correttezza anche ricordato che più o meno nello stesso tempo i giornalisti ebbero il merito di far emergere ricerche su questi ed altri effetti negativi degli antidepressivi che alcune case farmaceutiche si erano “dimenticate” di pubblicare. Facile immaginare l’atmosfera che insorse. Mi ricordo il tono tra il preoccupato e l’indignato di un educatore sociale che il lunedì mattina alle 8, dopo aver letto la notizia su un popolare quotidiano svizzero della domenica, mi chiedeva conto del trattamento antidepressivo – che durava con successo da un paio di mesi – di un giovane 22enne.
Ora, a più di 10 anni di distanza da quei provvedimenti della FDA, gli autori dello studio citato, hanno analizzato i dati di circa 1,1 milioni! di adolescenti (10-17 anni), 1,4 milioni di giovani adulti (18-29 anni) e come controllo quelli di circa 5 milioni di adulti (30-64 anni) ricavati da 11 piani sanitari del US Mental Health Research Network. I ricercatori hanno in particolare analizzato nelle categorie in questione i dati del consumo di antidepressivi, dei suicidi e degli avvelenamenti da farmaci, che costituisco un valido indice dei tentati suicidi. Ebbene, i risultati dimostrano chiaramente che il consumo di antidepressivi e i casi di avvelenamento da farmaci sono cambiati bruscamente dopo gli avvertimenti. In particolare nel secondo anno successivo alle avvertenze sopra riportate vi è stato un calo del consumo di antidepressivi del 31% tra gli adolescenti e del 24,3 % tra i giovani adulti. Contemporaneamente si è verificato un incremento significativo di avvelenamenti da farmaci negli adolescenti (aumento relativo del 21,7%9 e nei giovani adulti (aumento relativo del 33,7%9. Negli adulti invece la riduzione del consumo di antidepressivi nello stesso periodo è stata minima: ebbene in questo gruppo, che funge dunque da controllo, non si è verificato nessun aumento degli avvelenamenti da farmaci e dunque dei tentati suicidi, a riprova del nesso causale tra ridotto consumo di antidepressivi e aumento dei tentati suicidi.
Le conclusioni sono purtroppo semplici
“I tentati suicidi anziché diminuire dopo gli avvertimenti della FDA sono aumentati”.
Gli autori dello studio ne traggono le seguenti amare ma obiettive conseguenze:
“It is possible that the warnings and extensive media attention led to unexpected and unintended population level reductions in treatment for depression and subsequent increases in suicide attempts among young people. FDA advisories and boxed warnings can be crude and inadequate ways to communicate new and sometimes frightening scientific information to the public. Also, the information may be oversimplified and distorted when communicated in the media. However, we know that the media can influence drug use behavior in positive ways. For example, high profile news reports substantially reduced aspirin use in children and helped eradicate Reye’s syndrome”
Inutile dire che alle agenzie d’informazione delle case farmaceutiche non è sembrato vero di poter cogliere al volo i risultati dello studio per potersi vendicare delle presunte calunnie della stampa nei confronti dell’industria farmaceutica. È l’arcaico e ben noto “occhio per occhio” informativo; il risentimento e il desiderio di vendetta che alberga in tutti noi e del quale dobbiamo tener conto anche e soprattutto nella comunicazione sociale e scientifica in epoca digitale, se, a distanza di 4000 anni dal codice di Hammurabi, vogliamo almeno provare a superarlo.
È però difficile realizzare concretamente il ragionevolissimo auspicio che gli autori della ricerca formulano:
“Greater efforts are needed to improve risk communications to the public and to health professionals”.
La vicenda dimostra infatti quanto mai esplicitamente e drammaticamente la difficoltà di una corretta informazione scientifica in una società complessa in cui il problema non è più (per fortuna), almeno nei paesi sviluppati ed emergenti, l’accesso all’informazione. Ma dove, di fronte all’overload informativo, si pongono altre non meno decisive questioni: come comporre sui media e ancor di più su Internet e sui SN i diritti e i doveri informativi di tutte le parti in causa, come gestire l’influenza delle emozioni consapevoli e soprattutto inconsce sulla comunicazione sociale, come incentivare e favorire quella educazione che in un bellissimo post Luca De Biase indicava come “dimensione della vita”. Un’educazione che forse consente, può consentire, di fare da filtro all’informazione, aiutandoci ad individuarne il corretto “peso specifico”.