Amor vien nel bel viso di costei
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Questo, signor, m’avvien, po’ ch’i’ vi vidi,
c’un dolce amaro, un sì e no mi muove:
certo saranno stati gli occhi vostri.
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La tua bellezza il mondo intero ha catturato in lungo e in largo; il sole dei cieli è confuso pel volto leggiadro della luna terrena
Mirar codesta Leggiadria e venustà è precetto a tutte le creature
contemplare il volto tuo bello è dovere per le schiere degli angeli…
Baciare la polvere dei piedi di lui: quando mai a te sarà dato?
La storia del tuo amore, o Hafez, sarà il vento un dì a recargliela.
Questi versi, i cui autori lascio per il momento all’abilità del/lla lettore/trice individuare, provengono da contesti storico-culturali diversi ma sono accomunati da una simile amorosa meraviglia per il volto (o parte di esso) della persona che ispira il poeta. Indipendentemente dal fatto che questa persona sia un uomo, una donna o addirittura nel terzo testo – come suggerisce la critica – Dio stesso, Allah, nelle sembianze di un avvenente giovane. In questi e in mille altri testi amorosi dal fascino nasce il desiderio di unione con l’amato/a, lo stesso desiderio che ciascuno di noi vive nell’innamoramento e che è poi – come già scriveva Platone nel Simposio – l’essenza dell’amore “dunque al desiderio e alla ricerca dell’intero si dà nome amore”.
Nulla di nuovo si dirà se non fosse che a interessarsi di testi amorosi e del Simposio platonico è ora un noto neurobiologo britannico, Zeki, che vi ha dedicato una sezione del suo avvincente saggio “Splendors and miseries of the brain”. Zeki parte dalla dolce-amara esperienza che tutti noi facciamo dell’amore, dei suoi splendori e delle sue miserie.
D’ un bel viso in un momento
si fè il cuore prigionier
So che il laccio da tormento
Ma non è senza piacer
Una sorta di contraddizione sembra essere intrinseca all’amore, figlio di povertà e ricchezza, croce e delizia dell’universo intero, come testimonia tutta la letteratura amorosa, combattuta tra estasi e tormento, delusioni e speranze che giungono fino ad immaginare l’unione oltre la morte e/o in Dio. Zeki ritiene che una spiegazione di tale contraddizione sia forse da ricercare nel cervello e nei concetti (ereditati ed acquisiti) su cui esso si basa. Ora, il concetto di amore, il cui fondamento può essere appunto platonicamente riassunto nella parola, unity-in-love (It is the desire of lovers to be unified with one another, to become one) – dice Zeki – sarebbe neuro-biologicamente dato, ereditato, non acquisito culturalmente. Proprio per questo esso sarebbe presente in forma sostanzialmente simile in tutta la letteratura amorosa mondiale, occidentale ed orientale. E dalla letteratura, dall’arte così come dalla filosofia Zeki trae spunto in modo originale per arricchire ed integrare i risultati dell’indagine scientifica sull’amore così come su altri temi. Scrive (mirabilmente) Zeki:
It may seem strange to raid fields that are traditionally thought of as remote from the province of science. But are not literature products of the brain, and can they not therefore provide some insight, however small, into how it works? And is the brain not engaged in the feeling of love and the appreciation of beuty? Might not, therefore, a study of these capacities also tells us something significant about the brain?
E condotto dal suo desiderio di integrazione e unità (si potrebbe dire di amore?) tra scienze umane e scienze naturali, espone le sue ricerche sull’attività cerebrale nell’amore romantico e nell’amore materno, evidenziando le regioni che si attivano in entrambi e quelle specifiche di ognuno dei due. Le scansioni PET riprese mentre i probandi osservano l’immagine della persona amata e le conclusioni che Zeki ne trae non sono meno affascinanti di tanti testi letterari
Ma vorrei soffermarmi qui su un altro studio di Zeki sempre dedicato all’ amore, quello in cui egli confronta cosa succede nel nostro cervello – più esattamente nei centri deputati all’amore romantico – quando a guardare l’immagine della persona amata è un eterosessuale o un omosessuale.
Prima però torniamo un momento a Platone, spesso citato da Zeki, e al suo mito dell’androgino La storia è nota: gli uomini sarebbero stati una volta formati da due degli umani attuali. Avrebbero dunque avuto due teste, 4 braccia, 4 gambe, 2 organi sessuali. I loro sessi sarebbero stati 3 a seconda che l’unione comprendesse 2 uomini, 2 donne o 1 uomo e 1 donna (l’androgino appunto). Giove preoccupato però dalla loro potenza e tracotanza li avrebbe tagliati in due come sogliole. Ma impietosito avrebbe poi mandato loro Eros perché non si estinguessero. Ciascuno di noi, che è dunque il contrassegno (σύμβολον) dell’uomo originario, ricerca da allora, attraverso il ricongiungimento fisico, l’unità perduta. E poiché 3 erano i generi dell’uomo originario, 3 sono anche anche i tipi di legame sessuale che ci animano. Gli uomini e le donne che derivano dal taglio dell’androgino ricercano il sesso opposto (eterosessuali), le donne che derivano dall’essere completo femminile ricercano altre donne (lesbiche), i maschi che provengono dalla divisione dell’essere completo maschile desiderano altri maschi (omosessuali). Ma il desiderio di ricreare l’unità, dunque l’amore è lo stesso.
Passiamo ora alla neurobiologia attuale. Cosa ha scoperto Zeki confrontando l’attivazione dei centri cerebrali dell’amore di eterosessuali (6 femmine e 6 maschi) e omosessuali (6 femmine e 6 maschi) ? Com’è facile immaginare non ha scoperto niente, perché l’amore è anche neuro biologicamente sempre lo stesso!
Zeki conclude
We could therefore detect no difference in activation patterns between these groups.
e sobriamente ma efficacemente commenta:
a negative result but one that is nevertheless of considerable significance.
In questi giorni in cui cerchiamo affannosamente quanto mai evidenti (ed ingombranti) segni d’amore da scambiare, credo che questo silenzioso non risultato dica sull’amore più di tanti doni e tante parole.
Buon Natale!