„Il mio 18enne meraviglioso non c’è più“ ha scritto pochi giorni fa una nota giornalista su Twitter, annunciando la tragica morte di suo figlio, investito „da un auto nella notte“
Un‘onda di raggelante dolore ha percorso poco dopo Twitter, sul quale amici/amiche, conoscenti e sconosciuti/e hanno espresso commozione e cordoglio in parole che negavano sé stesse, riconoscendo che non ci sono parole per esprimere un dolore così immenso. Alcuni hanno invocato la preghiera, altri offerto un abbraccio o una silenziosa partecipazione. Come in ogni occasione, c’è stato anche qualche imbecille che ha cercato di strumentalizzare lo strazio della morte ma nel complesso ha prevalso un senso di dolorosa compostezza che, chi conosce Twitter, sa essere cosa assai rara. Molti hanno immediatamente pensato ai propri figli/figlie sentendosi, di fronte a una perdita così ingiusta, quasi in colpa per il fatto stesso di saperli/e ancora in vita. Alcuni genitori, che avevano subito la stessa atroce perdita di un figlio, hanno manifestato la loro solidarietà alla giornalista che ha trovato la forza per rispondere „ricambio con tutto il dolore ❤️“. I temi del dolore e della morte hanno segnato a lungo gli scambi, inducendo una inconsueta riflessività, ricca di immagini e ricordi personali. L’ immediatezza della morte ha per un momento avuto la meglio sul chiacchiericcio quotidiano, che è poi il divertissement che ci consente ogni giorno di rimuoverla. Successivamente, in altre TL, il tema del lutto si è articolato nel conflitto tra dimensione soggettiva del dolore e aspettativa sociale. Molti/e hanno rilevato sulla base della loro personale esperienza quanto sia crudele oltre che stupido giudicare chi soffre:
„quando un dolore ti travolge, tu ti senti come staccato dalla realtà. A volte nemmeno capisci fino in fondo cosa ti sta accadendo.
Hai preso questo pugno nella faccia, hai tutto rotto, dentro e fuori, ma nessuno lo vede e nessuno lo sa, se non chi lo prova.“
Da qui l‘invito:
„Siate indulgenti, se non riuscite ad essere amorevoli e comprensivi, con il dolore altrui. Siamo tutti diversi, alcuni incassano e vanno avanti, altri arrancano, altri ancora un po’ muoiono.
State nel vostro, che chi soffre non ha spazio nè energia per gestire anche un giudizio.
I giudizi sono certo l’ultima cosa di cui ha bisogno chi soffre, che necessita però di parole, pur sapendo bene che le parole a nulla valgono di fronte alla morte. A maggior ragione le parole fin troppo esibite di Twitter. Eppure, per una volta, le parole anziché mascherare e nascondere emozioni, le hanno invece sinceramente e sobriamente espresse. A partire da quel primo tweet in cui una donna in preda ad un dolore impossibile trova la forza per lamentare la perdita, con il figlio, di ogni senso. Mi vengono alla mente i volti di madri sconvolte da tragedie che hanno segnato le loro vite, di fronte alle quali avevo la sensazione di non poter che balbettare inutili parole di conforto, vergognandomi per la banalità delle mie espressioni. Forse si può solo ascoltare, esserci nella concretezza del momento, consapevoli della nostra inadeguatezza ed impotenza, che si riflette nell’inadeguatezza delle nostre parole. Nomina nuda tenemus, a maggior ragione sui social. Eppure è con le parole che diamo espressione al nostro dolore e consentiamo agli altri di condividerne qualche briciola. Con le parole elaboriamo la nostra sofferenza, la mastichiamo e rimastichiamo fino a poterla, di volta in volta, deglutire in bocconi amari. Con le parole protestiamo la nostra rabbia per l’ingiustizia della vita, che senza comunicazione alcuna che non sia quella dei fatti, ci toglie e dà, senza chiedere alcun permesso. Con le parole tentiamo, faticosamente, di ricostruire il nulla che ci è rimasto, impastandolo con le parole di chi ci sta vicino. Con le parole cerchiamo di ritrovare un senso che sembra irrimediabilmente perduto. Le parole sono i nostri fiori, che, grazie alla sincerità di quel primo disperato tweet, possono per un momento sbocciare anche su Twitter.
Immagine: Edward Burne-Jones, Fillide e Demofonte,