Il lavoro Balint come sistema ibrido: tra presenza corporea e risonanza inconscia

Siamo fatti di carne e pensieri, di respiri e risonanze invisibili. È su questa doppia frequenza che il lavoro Balint si muove. Con questo spirito ho partecipato ieri, come rappresentante della società Balint svizzera, al 21ª Simposio della Società Balint austriaca a Salisburgo, con un intervento sul tema “Il digitale inconscio e il lavoro Balint” e la conduzione di un gruppo Balint.

Origine e finalità dei gruppi Balint

 

I gruppi Balint, nati negli anni ’50 grazie al medico e psicoanalista Michael Balint, sono dispositivi di formazione in cui piccoli gruppi di medici o terapeuti si riuniscono regolarmente per riflettere, in un clima protetto, sulle proprie relazioni con i pazienti. Non si tratta di supervisioni tecniche, ma di uno spazio dedicato a esplorare il mondo emozionale che si attiva nell’incontro clinico. L’obiettivo non è trovare soluzioni immediate, bensì comprendere meglio cosa accade nel rapporto medico-paziente, per favorire sia l’empatia sia la capacità di porre confini sani.

 

L’inconscio e le metafore tecnologiche

In questo lavoro l’inconscio gioca un ruolo centrale. Ogni epoca, a seconda delle tecnologie disponibili, ha trovato metafore per avvicinare questo mondo invisibile: Sigmund Freud, nel suo tempo, paragonava il rapporto analitico a un telefono, dove l’inconscio dell’analista funzionava come un ricevitore capace di cogliere segnali impercettibili trasmessi dall’inconscio del paziente.


Il gruppo Balint come sistema ibrido

Oggi possiamo dire che anche il lavoro Balint funziona come un sistema onlife: da un lato siamo presenti fisicamente nella stanza, con i nostri corpi, i nostri sguardi, i nostri silenzi pesanti; dall’altro siamo connessi in una rete invisibile di affetti, fantasie, identificazioni reciproche, in un “online” interno che lega le nostre menti. Il gruppo Balint si configura dunque come uno spazio ibrido dove offline e online, corporeità e immaginazione, realtà e inconscio si fondono e si influenzano a vicenda.


Un’esperienza concreta: affrontare l’orrore


L’esperienza vissuta proprio durante il gruppo Balint odierno ne ha confermato la potenza trasformativa. Una collega ha portato il caso di una consulenza apparentemente ordinaria in una casa di riposo, che si è rivelata invece un viaggio nella memoria di un passato segnato dall’orrore. Il contatto con quell’orrore ha generato un bisogno urgente di parlarne, ma anche il rischio che l’impatto emotivo travolgesse l’intero gruppo.


La prima reazione: rifiuto e difesa

 

La prima reazione del gruppo, di fronte al racconto della collega, è stata quella del rifiuto, immediato e viscerale: un senso di nausea, una pesantezza che sembrava schiacciare il respiro, un desiderio fisico di allontanarsi, di chiudere quella porta invisibile che era stata spalancata. Il corpo ha reagito prima della mente, come spesso accade quando si tocca un trauma non ancora simbolizzato.


Dal frammento al racconto condiviso

 

Solo lentamente, in un movimento oscillante fatto di avvicinamenti timidi e ritirate improvvise, è stato possibile tentare di sostare accanto a quell’orrore senza esserne risucchiati. All’inizio si potevano cogliere solo frammenti: sensazioni vaghe, immagini confuse, emozioni senza nome. Ma a poco a poco, grazie al contenimento offerto dal gruppo e alla possibilità di verbalizzare anche l’indicibile, quei frammenti hanno iniziato ad assumere una forma.


Costruire confini per restare umani

Accanto al rifiuto primitivo, sono emerse altre emozioni: l’impotenza, la percezione dolorosa di essere di fronte a qualcosa che nessuna competenza tecnica può cancellare; l’irritazione, verso la crudeltà subita e verso il peso che ora toccava ai presenti; la rabbia, come risposta vitale contro il senso di sopraffazione. Condividere apertamente queste emozioni ha permesso al gruppo di costruire un confine interno: non un muro difensivo, ma una soglia consapevole, che delimitava fin dove era possibile avvicinarsi al dolore senza perdersi, senza tradire se stessi. Questa possibilità di oscillare, di accogliere e insieme di proteggersi, ha restituito a ciascuno la libertà di restare umano di fronte all’inumano.


Il valore attuale del lavoro Balint

In questo processo, il gruppo Balint ha svolto pienamente la sua funzione: uno spazio protetto ma permeabile, dove le emozioni possono emergere, essere riconosciute e trasformate, anziché esplodere o essere negate. In tempi in cui il rischio di smarrire l’integrità emotiva è sempre presente, il lavoro Balint si conferma più che mai necessario: non solo per coltivare l’empatia, ma anche per mantenere la libertà di definire i propri confini, senza spezzarsi.

Ascolto consigliato
Franz Schubert – Sonata per Arpeggione e Pianoforte, D.821, Andante con moto