Quando la paura divide, la mentalizzazione unisce

Siamo abitati dalla paura. Non solo dalle nostre paure personali di ogni giorno, ma da quelle collettive, che negli ultimi anni si sono accavallate ed accumulate A partire dalla crisi finanziaria del 2008-2009, che ha minato la fiducia nei sistemi economici globali, abbiamo assistito a una successione di eventi destabilizzanti: l’aggravarsi della crisi climatica, la tragica pandemia da COVID-19, movimenti migratori su scala planetaria, guerre che lambiscono I nostri confini. In questo clima di incertezza, la paura è diventata una compagna costante: paura del futuro, dell’altro, del cambiamento. Non solo.

1. La paura come strumento di potere

Come osserva Luca De Biase nella decima puntata del suo podcast Padroni del mondo , il potere è paura, o meglio far paura. Questa è anche la definizione di potere che Trump ha dato in una sua vecchia intervista e che viene e confermata ogni giorno dai suoi atti. Trump mette paura ai suoi nemici, al suo stesso partito, quello repubblicano, ai miliardari della silicon Valley che si alleano con lui o si assoggettano ai suoi diktat. Ma anche se Trump è certo il più potente leader che utilizza la paura come strumento di potere, non è certo l‘unico. La paura è diventata, in mani ciniche e abili, uno strumento di governo, una leva per orientare il consenso, manipolare le masse, consolidare poteri. Leader populisti, in particolare, hanno capito che indurre o amplificare la paura rende le persone più inclini a cedere libertà in cambio di presunta sicurezza, più disponibili ad accettare soluzioni autoritarie, più vulnerabili alla disinformazione.

 

Una lezione antica 


Lo aveva già compreso Tacito, storico dell’età imperiale romana, che sottolineava come la paura fosse una componente significativa del potere imperiale: “Corrumpere et metu coercere vulgus: haec fundamenta imperii sunt.” (“Corrompere e tenere il popolo sotto il giogo della paura: questi sono i fondamenti del potere.”)

Effetti profondi sulla società


Questo sfruttamento sistemico della paura ha effetti profondi non solo sul piano politico, ma anche su quello psichico e relazionale. È su questo sfondo che si colloca l’analisi di Peter Fonagy, esposta nella sua relazione – tenuta per la Società tedesca di Medicina Psicosomatica e Psicoterapia nel marzo 2025 a Berlino, sponsorizzata dalla Fondazione di Psicosomatica e Medicina Sociale di Basilea come “Ascona Lecture” – sulla crisi epistemica del terzo millennio, una crisi che mette in discussione le basi stesse della nostra convivenza sociale.


2. La crisi epistemica come crisi di fiducia


Nel cuore delle società democratiche avanzate si sta diffondendo un fenomeno silenzioso ma devastante: una crescente incapacità di condividere una base comune di realtà. Verità e finzione si mescolano, fatti e opinioni si confondono, fiducia e sospetto si scambiano di posto. Questo smottamento del terreno epistemico – ciò che Peter Fonagy definisce come “crisi epistemica del terzo millennio” – non è solo un problema cognitivo o politico: è innanzitutto una questione relazionale, affettiva e psicologica. E, secondo Fonagy, è proprio la psicoterapia a offrirci le coordinate più precise per comprendere e forse curare questa frattura.
La fiducia epistemica è la capacità di riconoscere le fonti informative affidabili, assumendole come pertinenti, generalizzabili e meritevoli di memoria. È il prerequisito invisibile ma fondamentale per ogni apprendimento significativo, per ogni scambio umano che non si limiti a manipolazione o propaganda. Ma questa fiducia non nasce dal nulla: si radica in esperienze relazionali precoci, nello sguardo che ci riconosce come soggetti pensanti e sentienti, nella possibilità di sentirci compresi. Questo processo, che Fonagy e colleghi chiamano mentalizzazione, è la capacità di riflettere sui propri stati mentali e su quelli altrui, e di usarli per dare senso al comportamento.

 

Fiducia epistemica e mentalizzazione


La mentalizzazione non è un’attività solitaria, ma profondamente intersoggettiva. Essa si sviluppa nel “we-mode”, la modalità del “noi”, in cui il senso si costruisce nella reciprocità e nella condivisione intenzionale. Quando questo processo viene ostacolato da traumi, abusi, esclusione sociale o relazioni segnate dalla manipolazione, la fiducia epistemica si incrina. Il bambino – e poi l’adulto – impara che le parole non servono per capire, ma per ingannare. Così, si chiude alla possibilità di apprendere dall’altro, sviluppando iper-vigilanza epistemica: uno stato di sospetto cronico verso ogni comunicazione, che lo rende impermeabile al cambiamento.

 

Iper-vigilanza epistemica e crisi collettiva


Secondo Fonagy, questa condizione individuale diventa oggi una sindrome collettiva. Viviamo in un mondo affollato di messaggi, ma povero di relazioni affidabili. I social media imitano quei segnali che normalmente indicano una relazione autentica, come l’attenzione personale, l’approvazione e la sintonia emotiva. Tuttavia, lo fanno in modo artificiale, offrendo solo un’illusione di comprensione, senza capirci veramente. Allo stesso modo, l’intelligenza artificiale – pur capace di riprodurre i linguaggi dell’empatia – rischia di generare illusioni relazionali che alimentano una fiducia epistemica illusoria, aprendo varchi a manipolazioni e credulità.


3. Subdominant narrative: la chiave trasformativa della relazione terapeutica

In questo panorama di sfiducia diffusa, la psicoterapia – e in particolare l’approccio basato sulla mentalizzazione (MBT) – rappresenta per Fonagy uno dei luoghi privilegiati per la riparazione della fiducia epistemica. Ma come avviene questa riparazione?
Uno dei momenti più significativi è il riconoscimento da parte del terapeuta non solo della narrativa dominante del paziente (quella esplicitamente raccontata, reiterata, che struttura la sua identità cosciente), ma anche di ciò che Fonagy chiama subdominant personal narrative: la narrazione marginale, non detta, dimenticata o inascoltata.

 

Riconoscere le narrazioni silenziate


È la storia parallela fatta di emozioni silenziate, desideri repressi, bisogni relazionali rimossi. Non è assente, ma non è mai stata sufficientemente mentalizzata né condivisa. Il terapeuta, nel cogliere e dare spazio a questa narrazione nascosta, crea una frattura nella coerenza difensiva del racconto dominante e apre uno spazio di trasformazione.
Fonagy descrive questo momento con profondità:

 

Un riconoscimento reciproco


“The person recognized also recognizes the recognizer as recognizing. In recognizing the recognizer’s recognition we find something in it we have not recognized in ourselves.” (La persona che viene riconosciuta riconosce a sua volta chi la riconosce, come qualcuno che la sta riconoscendo. Nel riconoscere il riconoscimento di chi ci riconosce, troviamo qualcosa che non avevamo riconosciuto in noi stessi.)
È un atto relazionale che va oltre l’empatia: permette al paziente di sentirsi visto non solo per ciò che mostra, ma anche per ciò che non osa ancora dire. È in questa apertura che si riattiva la fiducia epistemica: l’altro diventa credibile non perché dice la verità oggettiva, ma perché dimostra di riconoscere nell‘altro una mente pensante.
La psicoterapia così concepita non guarisce solo, ma riabilita la possibilità di apprendere, di costruire un senso condiviso, di tornare a essere parte di un “noi”.


4. Il noi come medicina per la realtà

 

La crisi del noi 


La crisi epistemica del terzo millennio, ci ricorda Fonagy, è innanzitutto una crisi del “noi”. Quando manca la capacità di mentalizzare insieme, di costruire una realtà condivisa, si moltiplicano le realtà parallele, le verità personali impermeabili, i conflitti senza soluzione.
Riparare la realtà non significa tornare a un’epoca di certezze assolute, ma ricostruire le condizioni affettive e relazionali che rendono possibile la fiducia reciproca. E questo passa per una forma radicalmente relazionale di conoscenza: il we-mode.

 

Il “we-mode”: una medicina relazionale


Fonagy lo definisce come la modalità in cui “l’io si lascia includere nel noi”, e dove l’apprendimento diventa possibile perché fondato sulla percezione di una intenzionalità condivisa.
Oggi più che mai, in un mondo dove la paura divide e la sfiducia avvelena, abbiamo bisogno di spazi – terapeutici, educativi, civili – dove sia possibile tornare a dire “noi”. Perché la realtà, come scrive Fonagy, è qualcosa che si può abitare solo insieme.


Suggerimento musicale: Olafur Arnalds – “Saman” (2018)