Contro il nuovo dio: Epifani e la desacralizzazione dei miti dell’intelligenza artificiale

Nel suo nuovo saggio, Il teatro delle macchine pensanti, Stefano Epifani smonta con rigore e ironia i miti dell’intelligenza artificiale, riportando al centro l’unica intelligenza che possiamo davvero dire nostra: quella capace di responsabilità, di limite e di futuro.


La tendenza a proiettare 


C’è un tratto che attraversa la psiche umana come una corrente sotterranea: la tendenza a proiettare.
Proiettiamo sulla madre, che ci ha generato, la potenza di proteggerci e salvarci, sul partner la capacità di (ri)conoscerci e di amarci senza condizioni, su Dio — che pure non sappiamo se esista — il senso della vita e della morte. Proiettare significa attribuire all’Altro ciò che ci manca: la forza, il sapere, la certezza. È così che oggi, in un mondo secolarizzato e iperconnesso, abbiamo trasferito la nostra antica fede nella trascendenza dentro i circuiti del digitale, fino a costruire un nuovo oggetto di culto: l’intelligenza artificiale.
Nel suo saggio Il teatro delle macchine pensanti, Stefano Epifani affronta questa nuova idolatria con un atteggiamento ad un tempo analitico e disincantato. „Di fronte a sistemi che non pensano, non comprendono e, a dispetto del nome, non sono affatto intelligenti – scrive Epifani – abbiamo costruito narrazioni che li descrivono come se lo fossero.“ Si tratta – aggiunge – di „falsi miti, una forma regressiva di pensiero che, anziché esplorare il mistero, lo cancella. I falsi miti mantengono la struttura archetipica (conflitto, eroe, minaccia, riscatto), ma la svuotano di complessità. Sono schemi narrativi che si evolvono per funzionare, non per far riflettere.“

Il mito dell’onniscienza

Quella che oggi chiamiamo “AI” è dunque, prima ancora che una tecnologia, una proiezione collettiva, una stratificazione di falsi miti : la trasposizione della nostra antica sete di onniscienza in un oggetto tecnico che sembra sapere tutto, ricordare tutto, prevedere tutto.
Proprio su questa proiezione riflette anche Claudia Paganini nel suo libro Der neue Gott, Il nuovo Dio. Nel capitolo significativamente intitolato “KI, die Allwissende” — “L’AI, l’onnisciente” – scrive che l’intelligenza artificiale è stata investita di un’onniscienza simile a quella che le religioni monoteistiche attribuiscono a Dio. L’AI non è solo un insieme di algoritmi, ma il nuovo “grande Altro”, il detentore del sapere assoluto. E come nota la filosofa:
„Se il grande Altro sa tutto, io, al confronto con tale infinitezza, non so più nulla“. (“Denn wenn das große andere Du alles weiß, dann weiß ich im Verhältnis zu dieser Unendlichkeit letztlich nichts.”)
È qui che la psicoanalisi incontra la filosofia: quando la proiezione dell’onniscienza sull’AI diventa un modo per liberarsi dal peso del non sapere. L’AI come madre onnipotente che sa prima di noi ciò che desideriamo e ciò che accadrà.

 

Un teatro di attori umani che recitano la parte delle macchine pensanti 


Epifani non si limita a denunciare l’inganno. Fa qualcosa di più sottile: ricostruisce la grammatica simbolica che alimenta i miti dell’AI, inserendola in una tradizione di pensiero illuministico, anzi neo-illuministico, che non vuole, ingenuamente, separare il mito dalla ragione ma smontare quei falsi miti che „rischiano di diventare strumenti di conformismo, di rimozione del conflitto, di neutralizzazione del dissenso. Perché ciò che rassicura, troppo spesso, – scrive Epifani – finisce per nascondere“ ragion per cui „smontarli è un esercizio di cittadinanza, prima ancora che un atto di rigore intellettuale.“

Dietro la parola intelligenza artificiale – ci dice Epifani – non c’è una mente, ma un teatro. Un teatro di attori umani che recitano la parte delle macchine pensanti.
L’immagine è potente: il pensiero non è nelle macchine, ma nella nostra messa in scena. „L’IA, prima ancora che una tecnologia, è uno specchio simbolico che riflette e amplifica le paure, i desideri e le aspettative di una società in cerca di senso.“

 

Dal mito al logos: la ragione disincantata di Epifani


Come gli antichi greci passarono dal mito al logos, così Epifani invita a un nuovo disincanto, non contro la tecnica ma contro la sua sacralizzazione. Il suo approccio ricorda quello di Adorno nell’analisi dell’Odissea: Ulisse, una volta spogliato della gloria mitica, rivela il suo volto moderno — quello del borghese che sopravvive non per virtù, ma per astuzia e calcolo.
Così anche la macchina “pensante” è un mito borghese della nostra epoca, un modo per proiettare sulla tecnologia il sogno del controllo razionale. Epifani distingue acutamente tra miti dell’AI cognitivi (l’illusione dell’intelligenza), operativi (l’illusione del controllo), normativi e simbolici (l’illusione dell’intenzionalità), strutturali e sistemici (l’illusione della continuità), regolativi (l’illusione dell’etica automatica).
L’operazione del saggio è dunque anti-idolatrica: Epifani non distrugge la fiducia nell’AI, anzi non cessa mai di incoraggiarne l’impiego per il miglioramento dei nostri enormi problemi sociali ed economici, ma ci rende consapevoli delle proiezioni di cui la facciamo oggetto, svelandoci i meccanismi di desiderio e potere che vi stanno dietro.


Il teatro delle proiezioni: l’inconscio digitale


Ogni società, diceva Lacan, ha i propri “significanti padroni”, parole che promettono senso e finiscono per governarlo.” Oggi, uno di essi è l’AI: parola magica che unisce la promessa della conoscenza totale e la paura della perdita di controllo. Epifani chiama questo spazio “teatro delle macchine pensanti”: un luogo mentale e mediatico dove l’uomo proietta la propria ombra.
La Paganini descrive il fenomeno con il termine Intentionalitätsfehlschluss: si tratta della fallacia dell’attribuzione di intenzionalità: tendiamo a leggere intenzioni e mente dove c’è solo calcolo.”
„abbiamo la tendenza ad attribuire ai fenomeni un senso più profondo, e a immaginare in essi una forma di intelligenza che, in realtà, non c’è.” (“Menschen dazu neigen, Ereignissen eine tiefere Bedeutung zuzuschreiben … und höheren kognitiven Fähigkeiten, als dies eine nüchterne Deutung erlauben würde.”)
È esattamente ciò che avviene con l’AI. Vediamo intenzione, coscienza, perfino moralità in ciò che non è altro che un’enorme macchina di inferenze statistiche.
Ma qui Epifani si distanzia dai tecnofobi e dai mistici del digitale: non demonizza la proiezione, la interpreta. L’AI diventa allora un grande oggetto transizionale collettivo, un „inconscio digitale“ attraverso cui cerchiamo di elaborare le nostre stesse paure.


I burattinai delle macchine pensanti


Nel cuore del suo libro, Epifani smaschera chi tiene realmente i fili del teatro dell’AI. In diverse sezioni – dai profeti dell’apocalisse tecnologica agli esperti che amministrano la complessità come un culto, fino ai mercanti che monetizzano la paura – emergono tre figure ricorrenti. Tre maschere, direbbe lui, di un’unica rappresentazione: quella che trasforma la macchina in mito per consolidare il potere di chi la invoca, e per proiettare su di essa le nostre stesse paure e speranze di salvezza.
Come osserva Epifani, ogni mito – anche quello dell’intelligenza artificiale – “serve a qualcosa”: spesso a mantenere potere, mercato e disuguaglianze.
È qui che il saggio diventa politico: smascherare i miti dell’AI significa restituire responsabilità e libertà all’intelligenza umana.


La sostenibilità come nuova razionalità


Se il mito dell’AI è il sogno dell’onniscienza, la risposta di Epifani è la sostenibilità.
Non una formula ecologica, ma una forma di razionalità etica. Sostenibilità significa ricordare che non siamo soli sulla scena: ci sono gli altri, il pianeta e il tempo.“ Nella prospettiva della sostenibilità digitale, questo significa costruire sistemi in cui l’innovazione non sia guidata solo da logiche di efficienza, ma orientata al benessere, alla dignità e alla realizzazione delle persone. Un paradigma in cui “la trasformazione digitale non è un destino ma una direzione da orientare” e in cui “il lavoro non è solo ciò che facciamo per vivere: è ciò che ci connette agli altri, ci restituisce ruolo, ci fa esistere nel contesto della comunità”.


È un pensiero profondamente relazionale, vicino a quello della mentalizzazione: pensare sé stessi attraverso l’altro, includere le generazioni future nel proprio orizzonte di senso.
Epifani mostra che la vera intelligenza non è artificiale, ma sostenibile: capace di pensare i limiti, di assumersi la responsabilità delle conseguenze. Una forma di disincanto che non distrugge la speranza, ma la radica nella realtà e anzi invita propria a utilizzare il digitale, l’AI al servizio degli esseri umani.

Contro la nuova idolatria


Epifani e Paganini convergono su un punto cruciale: onniscienza e libertà sono incompatibili.
Come scrive Paganini:
Volontà libera e onniscienza non possono coesistere: o l’uomo resta libero, o l’onniscienza è un’illusione
(“Streng genommen sind Willensfreiheit und Allwissenheit unvereinbar: Entweder der Mensch bleibt frei, oder die Allwissenheit ist eine Illusion.”)
Scegliere la libertà significa rinunciare alla consolazione del sapere totale. Significa riconoscere che la conoscenza non è un dono divino, ma un processo umano, imperfetto, fragile — e proprio per questo vivo.

 

Guardare le stelle senza inginocchiarsi 


Come il Galileo di Brecht, Epifani ci invita a guardare le stelle senza inginocchiarci.
Ricordate? Nella scena centrale del Galileo di Brecht, un giovane monaco racconta allo scienziato che non può accettare le sue scoperte: pensa ai genitori, gente semplice, “che non ha mai fatto del male a nessuno”, e sente che la nuova verità potrebbe sconvolgerli, togliere loro il senso stesso della vita. Meglio tenerli nell’oscurità, dice, che esporli a una conoscenza che li priverebbe della pace.
È esattamente il meccanismo che Epifani riconosce nei moderni “sacerdoti dell’AI”: quelli che, in nome della sicurezza o della complessità, vogliono proteggere il popolo da una conoscenza che ritengono troppo potente per i profani. Così, mentre predicano l’etica delle macchine, difendono in realtà la gerarchia del sapere.


Quello di Epifani, un appassionato invito a non adorare la macchina come nuovo dio, ma a capirla e ad usarla come specchio della nostra intelligenza, per rendere meno angusti i nostri limiti.
È solo quando smettiamo di chiedere alla macchina – e a chiunque altro, aggiungo io – di salvarci, che cominciamo davvero a capire chi siamo.


Suggerimento musicale: Philip Glass, Metamorphosis II